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 2013  novembre 08 Venerdì calendario

PAZZA INTER, AMALA. GIOIE, DOLORI E RICORDI DI UN PRESIDENTE CONVINTO CHE ZANETTI VIENE DAL PIANETA KRYPTON


C’è un filo rosso che attraversa la storia di Massimo Moratti alla guida dell’Inter: il senso della sorpresa, la voglia di far sognare i tifosi, realizzando quello che sembrava impossibile. Nessuno, al suo posto, avrebbe preso in mano la società, il 18 febbraio 1995, in un momento di profonda crisi del club, dopoché suo padre, Angelo, aveva vinto tutto in tredici anni di presidenza. La scintilla era scattata il 24 novembre di vent’anni fa, a Norwich, i nerazzurri in campo in Coppa Uefa, lui in tribuna quasi per caso, dopo essersi pagato il biglietto, senza nemmeno pensare a come sarebbe andata a finire: «Ero a Londra per lavoro, sono venuto qui, sperando di non soffrire troppo. Era tantissimo che non seguivo la squadra in trasferta». Lì era scattata la scintilla. Tredici mesi dopo, il 13 gennaio 1995, l’incontro casuale con l’avvocato Prisco, in via Pietro Verri, nel cuore di Milano. «Allora ti decidi a prendere l’Inter? Mi autorizzi a scrivere una lettera a Pellegrini?». La risposta era stata sorprendente: «Sì, proviamo a vedere, ma non oggi che è il 13». Era arrivato il via libera. Il 28 gennaio, la trattativa era formalmente chiusa. «Non è stata una decisione facile; ma era un rischio che si poteva prendere o forse io lo vedevo così, perché c’era la voglia di farlo. L’Inter, per tutti noi, è sempre stata soltanto una passione. Era così per papà, è stato così per noi e per me. Così era difficile rimanere indifferenti di fronte a una squadra che era diventata un po’ pallida, anche con una sofferenza che va molto più in là di quella del tifoso, perché ne hai la piena responsabilità». Del resto nel 1980 il padre aveva detto a Massimo: «Dovresti vedere se si può prendere l’Inter, perché un’esperienza nel calcio va fatta. Aiuta a crescere, a soffrire, a migliorare».
Javier Zanetti è «il primo giocatore che ho visto e che ho scelto. Non avevo ancora preso l’Inter e mi era arrivata la cassetta di una partita dell’Argentina under 20, per farmi osservare Ortega. Vedo un pezzo di partita, neanche tutta, Ortega non mi aveva entusiasmato e invece, cosa stranissima, mi ero lasciato incantare da un terzino, che faceva cose che non avevo mai visto: difendeva, ripartiva, dribblava sette avversari insieme. L’abbiamo preso ed è ancora con noi; adesso ho scoperto che viene dal pianeta Krypton e che giocherà ancora per 4-5 anni». Poi è arrivato Paul Ince, dal Manchester United: «Un consigliere mi aveva sussurrato che sarebbe stato meglio evitare i giocatori di colore, perché la curva la pensava diversamente. Già lo volevo prendere perché era un grande centrocampista; così, forse non per provocare o forse sì, mi sono tolto l’ultimo dubbio ed è arrivato qui. La risposta del pubblico è stata fantastica, Ince è stato uno dei giocatori più adorati».
L’obiettivo di Moratti è sempre stato quello di trovare un giocatore che facesse la differenza anche nella fantasia dei tifosi. Pensava a Cantona, poi a Djorkaeff, che ha segnato forse il più bel gol della sua presidenza, quello contro la Roma (5 gennaio 1997), finché nel giugno 1997 arriva a Ronaldo: «L’ho preso perché era fortissimo, ma anche perché nessuno credeva che l’acquisto fosse possibile, visto che lui giocava nel Barcellona. C’era stata un’apertura; poi sembrava che il giocatore si fosse messo d’accordo con il Barcellona per continuare. Invece mentre ero in viaggio, ho ricevuto la telefonata in cui mi si diceva che desiderava venire all’Inter. Quel tratto di strada lo feci con un entusiasmo incredibile. È stato un ottimo affare, Ronaldo è arrivato a un costo alto, ma cinque anni dopo è stato rivenduto al doppio al Real e per l’Inter ha rappresentato un’immagine importantissima, perché ci ha aperto al mondo». L’estate del 1997 ha coinciso anche con l’arrivo di Recoba, forse il più amato dal presidente: «Si era presentato a San Siro con due gol alla prima di campionato con il Brescia e pensavo che venisse giù lo stadio; era un giocatore di grandissima classe, uno capace di sorprendere noi e se stesso, perché capace di realizzare qualcosa che non prepari ed è l’aspetto più bello».
C’è anche un momento in cui va in campo un’Inter tutta straniera. Succederà nella notte della vittoria in Champions League, ma accade per la prima volta il 24 novembre 2005, contro l’Artmedia. Il caso finisce in Parlamento, «ma io ho sempre pensato che contassero i grandi giocatori e non il loro luogo di nascita, perché credo che questo sia il vero spirito di Milano, una città dove aprirsi e non chiudersi, cercare spazi e non accettare limiti. Milano è spirito nuovo, progettualità vera, forza di trascinamento. Che significa inserire nella città quelli che partecipano al lavoro. Non mi è mai interessato sapere se Cambiasso è italiano o argentino; so che è un professionista esemplare e una persona meravigliosa».
In questi 18 anni ci sono stati anche momenti molto difficili: «Abbiamo vinto tanto, ma prima c’è stata anche tanta sofferenza, perché abbiamo dovuto scavalcare le montagne». Se ne sono andati l’avvocato Prisco e Giacinto Facchetti. C’è stata Calciopoli, legata a un momento in cui «vedevo davanti a me un muro non superabile. Avevo capito che al massimo avremmo potuto concorrere per il secondo o terzo posto. Nel 2006 avrei voluto cedere la società; poi prevale il senso di responsabilità e il rispetto per l’impegno preso. Così ho deciso di andare avanti, mentre si andava precisando quanto si era intuito già nel 1998. Ho pensato: faremo una squadra così forte, che vinceremo tutto». È stato così, anche se con Mancini, le vittorie erano già arrivate nel 2005. Prendere Ibrahimovic nell’agosto 2006 è stato un po’ come ripetere la storia di Ronaldo: «Alcuni amici svedesi mi avevano raccontato che a Malmoe lui giocava con la maglia dell’Inter. Ibrahimovic era un campione da Inter, geniale e fantastico, come impongono la tradizione e la storia della società». Nell’ottobre 2006, dopo l’1-1 di Cagliari, il presidente aveva anche pensato di cambiare Mancini, prendendo Scolari. Mancini però lo aveva preso in contropiede: «Parlavamo delle difficoltà di quel momento e lui mi ha detto: stia tranquillo, vinciamo lo scudetto alla grande, ma non cambi allenatore. Non faccia questo errore. Mi era piaciuto che parlasse dell’allenatore non in prima persona. L’ho tenuto, abbiamo vinto». Finché è arrivato Mourinho: «L’avevo cercato dopo lo sfogo di Mancini, a metà marzo 2008; gli avevo spiegato che se fosse arrivato lo scudetto, non avrei cambiato. Lui mi rispose: non prendo impegni, finché lei non ha deciso. Alla fine ho scelto lui, perché temevo che Mancini ripetesse lo sfogo dopo il Liverpool e si dimettesse». Con Mou è arrivato il triplete del 2010: «Il bello è che ho sofferto molto di più a Siena, per lo scudetto nel giorno del mio compleanno, che a Madrid. Già molto prima della finale ero convinto che avremmo battuto il Bayern. È stata una grande emozione, non una sofferenza». In questi anni ha provato anche a prendere Messi («Ma era troppo legato al Barcellona»), ha rifatto l’Inter per arrivare in cima al mondo. Poi nel 2011, dopo la Coppa Italia, «ho pensato che fosse venuto il momento di fare un passo laterale, di trovare nuove soluzioni per il club. Ho cercato una soluzione che ci aprisse nuovi mercati. È stato giusto farlo. Non ho mai pensato di essere presidente dell’Inter a vita». La storia dirà.