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 2013  novembre 08 Venerdì calendario

MISHIMA UN SAMURAI IN VERSIONE «COLAZIONE DA TIFFANY»


ROMA. C’è un Mishima che non ti aspetti. Niente omicidi sessuali, templi buddhisti in fiamme, badesse shintoiste che adorano il vuoto. Non ci sono seppuku (il suicidio rituale dei samurai giapponesi), decomposizioni di angeli, madame De Sade o l’amico Hitler (dai titoli provocatori di due suoi lavori teatrali». Siamo lontani dlla morbosità della Casa delle belle addormentate di Kawabata, dalle perversioni della Vita segreta dei signore di Bushu di Tanizaki. La scuola della carne (Feltrinelli, 1963, inedito in Italia, tradotto da Carlotta Rapisarda) è la Colazione da Tiffany di Yukio Mishima. C’è persino un lieto fine.
Il romanzo è la dimostrazione del principio nipponico del dritto e del rovescio: una superficie apparente che nasconde il vero significato delle cose. E rivela la capacita dell’autore (non solo in narrativa ma nella vita) di seguire un filo unico. Di solito, Mishima viene letto in tre fasi separate: l’intellettuale occidentalizzato e omosessuale; il culturista che scopre il corpo da plasmare; il fanatico fascista del suicidio rituale. La scuola della carne dimostra, invece, che l’uomo ha sempre battuto una sola via, sotto differenti forme: quella della riflessione sul tema della carnalità.
Sin dalla prima eiaculazione adolescenziale, guardando il San Sebastiano trafitto di Guido Reni (rivelata nell’esordio Confessioni di una maschera), e poi nella fase della via del guerriero (Sole e acciaio), e fino allo sventramento fisico con la lama di una spada (al termine della tetralogia Il mare della fertilità), questo «genio globale» (fu scrittore, attore, drammaturgo, regista, ma si definì anche artista del corpo e dell’azione) non ha fatto altro che meditare sulle implicazioni spirituali del colpo umano.
La scuola della carne narra le avventure di Taeko, quarantenne divorziata, titolare di una boutique e nomadista sessuale, che aggancia il cameriere di un gay bar, il ventunenne Senkichi, di professione gigolò. Lei «inghiotte deserto», per il vuoto della vita. Tappa dopo tappa, accetta «la gioia impetuosa, per chi è amato, di profanare se stesso» e, al pari, la sorte di chi ama, «condannato a seguire l’altro, in una perpetua discesa nelle profondità dell’inferno».
Ma Taeko trova in casa tracce di un’altra donna. Lui si giustifica: voleva uccidermi, per allestire un doppio suicidio d’amore. Lei reagisce, costringendo un’amica a presentarle altri uomini, dicendo loro che è disponibile. Incontra un politico. Tradisce l’amante per farlo arrabbiare. Lui resta gelido. Decidono, allora, di incontrarsi in quattro: lei va col politico, lui si porta dietro a sorpresa la figlia di un cliente della boutique di Taeko, la quale crede che Taeko stessa sia la zia (e non l’amante) di Senkichi. L’indomani la madre della ragazza va a trovare Taeko. Le rivela che il ragazzo è stato a cena da loro, e ha confessato tutta la sua vita, perché vuoi sposare la ragazza. Taeko, cinica, si domanda: avrà loro rivelato cnche del bar gay?
La storia diventa un giallo esistenziale, con finale a sorpresa. Mishima si conferma maestro nella vivisezione della psicologia umana. E perfezionista nei dettagli. Ma si capisce anche che l’uomo si chiude una porta alle spalle: la scuola della carne è finita, addio viaggi verso l’Occidente e pulsioni da gay bar. Lo scrittore imbocca la via che lo porterà a fondare un esercito privato, il Tatenokai, e a occupare, il 25 novembre del’70, il quartier generale della Forza di Difesa del Giappone orientale di Tokyo, togliendosi la vita insieme al giovane Morita con il rito del seppuku. Da antico samurai.
Come spiegare il gesto? Maurice Pinguet, autore di La morte volontaria in Giappone (Garzanti), indica un contesto: il Giappone uscito dalla Seconda guerra mondiale. «Non era che un campo di rovine. Fu il momento più profondo della notte nichilista. Shiga Naoya, uno degli scrittori più celebrati, ne incolpò addirittura la stessa lingua giapponese. Propose di adottare un idiona «ragionevole», bandire buddhismo e shintoismo, adottare il cristanesimo come religione di Stato. Un auto-genocidio culturale che faceva il paio con la proposta di suicidio nazionale (ichioku gyokusoi: cento milioni di cittadini che si sarebbero sacrificati) avanzata dai fanatici nazionalisti».
Le città del Sol levante erano battute dagli hibakusha, una specie umana inedita: le vittime sopravvissute alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Si sottovaluta anche che lo scrittore, nel ‘44, prestò servizio presso lo stabilimento dell’aeronautica di Koizumi, nel quale si producevano gli aerei dei piloti kamikaze. Scrive Mishima: «Organizzazione moderna e cervelli d’eccezione rivolti al conseguimento di un unico fine: la Morte. Quella fabbrica evocava un culto segreto». Più tardi, quando rielaborerà quelle esperienze, curerà una edizione delle ultime lettere di quei piloti. Ebbe, nel farlo, un atteggiamento scevro da ogni fanatismo, se il tenore delle missive fu quello del ventitreenne pilota Oikawa Hajime: «Chi pensate che io sia, un folle? Un giorno di pioggia mi offre un altro giorno da vivere. Che colpo di fortuna! Il mio copilota dorme sodo al mio fianco. Possibile che questa sua faccia scema possa diventare domani quella di un dio guerriero?». Nell’ora estrema, gli alti ufficiali fecero seppuku (incluso il ministro della Guerra, il generale Anami, che si lasciò morire lentamente, per dissanguamento). Mishima aveva all’epoca 21 anni. Sognava la morte in battaglia e, al contempo, la prospettiva lo terrorizzava. Scrisse ancora: «Non mi sentivo vivo. non mi sentivo morto».
Mishina era ossessionato da un episodio. Ne parlerà con il giornalista Henry Scott Stokes, amico e biografo, mettendolo in relazione con i suoi studi sull’Hagakure, l’antico codice samurai di Yamamoto Tsunetomo. Fino al 1853 il Giappone era sakoku, un Paese chiuso. Poi arrivarono le quattro «navi nere» del commodoro americano Matthew Perry. Iniziò cosi la «modernizzazione». Nel 1877 il governo vietò l’uso delle spade e ne ordinò il sequestro. Cento samurai si ribellarono attaccando le caserme. Vennero falciati dalle mitraglie. Chi sopravvive, si uccise al modo di Mishima.
Subito dopo la guerra mondiale, raccontò ancora lo scrittore al suo biografo, gi americani scoprirono di non sapere quasi nulla di un popolo che pure li aveva combattuti come i Galli l’Impero romano, a parte l’urlo Tenno heika banzai (lunga vita all’Imperatore) che aveva tante volte perforato i timpani di John Wayne, nei film di Hollywood sulla guerra nel Pacifico. Il governo Usa incaricò cosi la sociologa Ruth Benedict di indagare. Ne venne fuori il più famoso studio sulla società nipponica, Il crisantemo e la spada. L’Occidente scoprì le penombre e la calligrafia, le decorazioni a lacca e il teatro Noh. Ma rimosse la natura guerriera dei «maledetti musi gialli». E Mishima, affermando che nessun occidentale avrebbe capito il Giappone, si prefisse di ridare alla Patria umiliata la sua spada.
Gli occhi della tigre. Il nulla che ci osserva. Il volto di Mishima, catturato dal fotografo Eiko Osoe, non sembra umano. Effetto del fanatismo? Lo scrittore, in quegli anni, sta cercando le parole per rimandare questa vertigine. Perfeziona la figura del ribelle. Essa accompagna i quattro romanzi della tetralogia, Il mare della fertilità, dove la teoria della Reincarnazione trova posto come «un dato di fatto», secondo l’antica filosofia di una piccola setta buddhista, denominata Hosso. Ribelle è anche l’ufficiale del film Patriottismo (interpretato dallo stesso Mishima) che si toglierà la vita per lealtà, ancora col seppuku. Ribelle è il custode balbuziente che brucerà il Padiglione d’oro di Kyoto. Ancora una volta: è un fanatico? Se è cosi, e un fanatico che dice di se stesso: rideranno di me. E sarà vero. Quando, prima del seppuku, Mishima arringherà i soldati dalla balconata del quartier generale. insulti e motti offensivi si riverseranno su di lui, come di lì a poco lo imbratterà il sangue delle sue viscere. Poi Mishima scoprirà il «linguaggio della carne». Concetto oscuro. Marguerite Yourcenar, in Mishima o La visione del vuoto (Bompiani). insiste sull’importanza del saggio Sole e acciaio, scritto nel ’65 da un uomo avviato sulla via del Bushido. Arte e azione, lettere e spada, la morte affascinante ma temuta durante la guerra, che ora diventa «la bellezza di una morte eroica e violenta». Scrive Mishima: «L’acciaio mi ha elargito una forma di conoscenza nuova, che né i libri né l’esperienza di vita erano in grado di fornire».
La passione torna al centro, come ne La scuola della carne. L’amore proibito diventa l’ingrediente della tragedia di Kiyoaki e Satoko, che mette in moto con Neve di Primavera la tetralogia finale. Non promessi sposi, ma amanti, rovinano grandi famiglie e tradiscono per questo l’Imperatore. L’immagine è speculare e contraria all’ultimo gesto del ribelle Mishima che, ricorrendo al seppuku bandito nel Giappone moderno, sfida l’Imperatore. Lo invoca, ma in realtà uccidendosi ritualmente (come gli ufficiali, i piloti kamikaze e i samurai) lo accusa di aver capitolato. Nell’immenso cielo vuoto ora c’è il fungo della bomba atomica. A coprire il sole.