Tonia Mastrobuoni, La Stampa 8/11/2013, 8 novembre 2013
L’ISOLA C’È MA NON SI VEDE
è una virgola in mezzo al nulla, un’isola microscopica nel Pacifico che può essere oscurata da una nuvola. E per Amelia Earhart non è un dettaglio. Pioniera leggendaria delle trasvolate in solitaria, primo essere umano ad aver attraversato l’Atlantico dopo Lindbergh, questa testarda pioniera sta compiendo anche l’impresa più grande, il giro del mondo sulla sua freccia dei cieli color argento. Quella mattina di luglio del 1937 il suo bimotore parte per l’ultimo tratto prima del traguardo, dopo 22 mila miglia di volo attorno all’Equatore. Ma tra lei e la leggenda c’è solo uno scoglio. Letteralmente. Howland è un ammasso di pietre dalla forma oblunga nel cuore dell’oceano più grande. Amelia sa che è una sfida trovare quel mucchietto di terra, ma sa anche che è là che la attendono i rifornimenti di carburante e un letto per riposarsi. Non ci arriverà mai.
Howland è una delle 50 isole che la scrittrice tedesca Judith Schalansky racconta nel suo Atlante delle isole remote (Bompiani), dichiarando da subito che si tratta di isole «dove non sono mai stata né mai andrò», come recita il sottotitolo. Ma la bugia non è solo il fondamento di questo geniale libro, corredato di disegni accuratissimi. È anche, ci ricorda l’autrice, l’essenza di ogni cartina geografica, di ogni mappamondo, di ogni atlante.
Anzitutto lo è per chi è cresciuto nel Meclemburgo, come Schalansky, dove il regime comunista stendeva ipocritamente le Germanie su due pagine lasciando alla «piegatura bianca, lucida e insormontabile tra le due pagine» il compito di dividerle. Ma chiunque abbia studiato un po’ di geografia sa che su qualsiasi cartina le proporzioni sono sballate, distorte, da interpretare. Sull’atlante la Terra è piatta e le grandezze sono menzognere: l’Africa e la Groenlandia sono equivalenti, quando la prima è quattordici volte la seconda. E le autostrade sono del tutto distorte, mastodontiche rispetto alla realtà. Persino sul mappamondo, quel «corrispettivo pornografico», ma più proporzionato e veritiero dell’atlante, ci sono delle bufale: la «Terra australis incognita» fu battezzata così quando non lo era già più. E tra i termini fuorvianti, c’è certamente «remoto». Rispetto a chi? L’isola di Pasqua è definita dai suoi abitanti «l’ombelico del mondo».
L’impresa di Schalansky è proprio quella di esplorare virtualmente i «parìa» delle cartine geografiche, quelle isole talmente lontane dalla terraferma da essere escluse dalle carte ufficiali o relegate «in un angolino, stipate dentro la cornice di un riquadro, sospinte ai margini, con una scala tutta loro, ma senza alcuna reale posizione».
È a queste «note a piè di pagina della terraferma» che l’autrice dedica 50 magnifici ritratti, e spesso si scopre che sono spazi teatrali dove si condensano assurdità umane che di solito si disperdono, nella sconfinatezza dei continenti. Nell’elenco non ci sono soltanto i luoghi sperduti più famosi della storia, Sant’Elena o gli arcipelaghi delle avventure di Cook e di Magellano o delle esplorazioni di Darwin. Ci sono anche isole dove nascono utopie o piccole tirannidi o dove si ripetono per secoli scempi atroci, cannibalismi, incesti, stupri sistematici. Come sull’isola dei discendenti degli ammutinati del Bounty, dov’è normale abusare di bambini «perché è la consuetudine» sin da quel disgraziato episodio di incursione occidentale.
In questi microcosmi si nascondono spesso mali oscuri, come quello dell’isola britannica di St. Kilda, evacuata negli Anni 30 del secolo scorso, dove i bambini morivano tra il settimo e il nono giorno, forse per la carne oleosa dei fulmari che rendeva acido il latte materno, o forse per le parentele troppo strette. E sull’«isola dei daltonici» Pingelap, in Micronesia, un tifone decimò la popolazione e fece sopravvivere solo una ventina di indigeni; alcuni di essi soffrivano di una mutazione del cromosoma che li rendeva del tutto ciechi ai colori. Oggi un decimo degli abitanti di Pingelap è daltonico. E quando si arriva sull’isola, saltano agli occhi i maiali. Sono bianchi o neri, come per adattarsi al male del luogo.
Le isole sono anche formidabili laboratori per piccole dittature private. Lo è stata l’ecuadoregna Floreana, dove la baronessa austriaca Eloise Wagner de Bousquet approda nel 1932 con l’idea di costruire un albergo per milionari, trascinandosi dietro mucche, asini, polli, quaranta quintali di cemento, e due amanti, «schiavi dei suoi capricci». Finiranno tutti inghiottiti dal nulla, lasciando sull’isola un solo, misero segno del loro passaggio: l’Hacienda paradiso, un telone teso tra quattro picchetti. Un po’ poco, per una vacanza.