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 2013  novembre 07 Giovedì calendario

CARLO RATTI


Il design dell’Expo di Milano 2015 è nella testa e nei progetti di un architetto che in Italia pochi conoscono, ma su cui ha investito il Massachusetts Institute of Technology, la più importante istituzione scientifica d’America. Carlo Ratti, torinese, 43 anni, si era già inventato il palazzo d’acqua per l’Expo di Saragozza 2008, che vinse il premio di Time per migliore invenzione dell’anno. Ora Ratti disegnerà il Future Food District, dedicato al cibo, nell’Expo di Milano. Insegna al Mit di Boston, dove dirige il SENSEable City Lab, il «laboratorio della città sensibile» (e capace di sentire). È uno dei simboli dell’Italia che reagisce alla crisi affermandosi nel mondo e lavorando sui temi del futuro, anche se in patria è per il momento quasi sconosciuto al grande pubblico.
Professor Ratti, lei è figlio d’arte? Ho architetti in famiglia, ma non ho ereditato uno studio. Mio padre insegnava ingegneria al Politecnico. Un giorno ha deciso di andare a coltivare la vigna nel Monferrato, di diventare un agricoltore biologico. Anche io ho fatto ingegneria, prima al Politecnico di Torino, quindi all’École Nationale des Ponts di Parigi. Poi sono andato in Inghilterra, a Cambridge, per il master in architettura e il dottorato tra architettura e informatica. Un giorno venne all’università Alberto Papuzzi, inviato de La Stampa. Facemmo amicizia, cominciai a collaborare con Tuttoscienze e con le pagine culturali del quotidiano torinese; e poi con l’inserto domenicale de Il Sole 24 Ore. Ho scritto anche sul New York Times e sull’Huffington Post.
Com’è finito a Boston? Venne in visita il preside della scuola di architettura del Mit. Gli piacquero le cose che stavo facendo.
Ovvero? Lavoravo a nuove tecniche per analizzare la città. Stavo studiando le diverse geometrie dei tessuti urbani, per cercare di capirne le conseguenze: smog, consumo di acqua ed energia, esposizione al sole e al vento. Si tratta di progettare la città in modo da rispondere meglio a questi parametri. Così mi hanno invitato per sei mesi in Massachusetts. Poi mi hanno chiesto di fondare e dirigere il laboratorio.
Come cambieranno la nostra vita i vostri studi? Le nuove tecnologie ci hanno già cambiato la vita, ma all’inizio erano pesanti, fisse, solide. Ora hanno assunto la forma di reti: telecomunicazioni, sensori. Stanno nascendo le smart city, le città intelligenti. Un termine che peraltro non amo: preferisco appunto parlare di città sensibili, umane. È un campo del tutto nuovo. Inesplorato. Facciamo ricerca sia a Boston sia a Singapore. Alcuni progetti vengono realizzati nel mio studio, tra Torino, Londra e gli Usa. Altri sono legati a start-up.
Cosa consiglierebbe a un giovane che vuole creare una start-up? Serve un’idea, che talora diventa un brevetto, e ovviamente servono fondi per comprare almeno il «garage», diventato un mito: ormai a Boston li vendono a peso d’oro. L’ultima start-up che ha ricevuto i fondi di venture-capital si chiama La ruota di Copenaghen: un disco rosso che consente di trasformare ogni bici in una bici ibrida e di raccogliere dati, sia sulla performance atletica del ciclista sia sulla città e sull’inquinamento. L’idea è mettere insieme il mondo fisico con la rete.
È un’idea in sintonia con la sua formazione, a cavallo tra la dimensione umanistica e quella scientifico-tecnologica. In Italia però siamo abituati a considerarli mondi separati. È un errore. Per progettare il futuro è fondamentale essere a cavallo tra design, scienza e cultura umanistica. Nel nostro campo confluiscono tre aspetti: quello tradizionale, progettare un edificio o una città; quello legato alle tecnologie di informatica diffusa, che consentono di costruire una rete di sensori; e quello più importante, la componente umana. Le reti ci permettono nuove interazioni tra le persone, e tra persone e prodotto.
Un esempio? La sharing economy: come condividere in modo nuovo. I ragazzi che lavorano nei laboratori quando viaggiano usano Airbnb, l’albergo diffuso: affittano il proprio appartamento ad altri, che a loro volta li ospiteranno a casa propria. Prima lo si faceva tra conoscenti. Oggi, grazie alle reti, è diventato un sistema. Parigi è all’avanguardia. Poi ci sono i temi legati alla terza rivoluzione industriale.
Quella annunciata dal sociologo Jeremy Rifkin? Rifkin ha avuto un’intuizione importante, anche se si concentra soprattutto sull’energia. Vede, tra le varie utopie del secolo passato c’era quella dei situa zionisti come Constant Anton Nieuwenhuys, l’autore di New Babylon. L’autore immagina un uomo, l’homo ludens, che liberato dalla schiavitù della macchina si riprende la creatività attraverso il gioco, mentre Parte scompare perché ciascuno diventa artista nella pratica della sua vita quotidiana. Questa rivoluzione sta avvenendo nel campo della produzione. Consideri le stampanti tridimensionali. Quando io arrivai al Mit, nel 2001, passavamo la notte a mandare in stampa oggetti fatti di polvere, che servivano solo a studiare una geometria. Oggi Generai Electric sta iniziando a stampare in tré dimensioni le turbine dei jet. Il computer su cui lei sta scrivendo in parte può essere stampato. Nascono i fab lab, laboratori dove ognuno può imparare a usare le macchine numeriche, nuovi luoghi di formazione per i ragazzi.
L’Italia non è in ritardo? Tutto questo rappresenta per l’Italia una grande opportunità, perché mette insieme due nostri tradizionali punti di forza. Se riusciamo a fare il salto in avanti possiamo coniugare artigianale e creatività. Quasi un ritorno alla bottega medievale, dove si vive, si progetta, si produce. La fabbrica torna in città, ma non è più la stessa del Novecento, rumorosa e inquinante. È una fabbrica digitale, che può stare in uno scantinato. Però dobbiamo muoverci subito. In Spagna lo fanno. Il sindaco di Barcellona mi ha cercato per progettare il nuovo quartiere basato su questi principi, il Paseo de la Zona Franca, tra l’aeroporto e il Montjuìc.
Com’è andato il lavoro per l’Expo di Saragozza 2008? Ci affidarono il padiglione d’ingresso. Il tema era l’acqua, vale a dire un elemento fondamentale dell’architettura nei secoli passati. Il punto era usarla in modo nuovo. Da qui l’idea di un palazzo tutto fatto d’acqua, con le pareti che si allargano e si restringono a seconda delle persone che sono dentro, e un tetto a scomparsa. E ancora lì, è uno spazio pubblico, ospita spettacoli, non ha bisogno di aria condizionata perché fa sempre fresco, c’è una piccola comunità di programmatori che ne cura la manutenzione.
E l’Expo di Milano che caratteristiche avrà? A parte ovviamente i padiglioni dei vari Paesi, ci sarà un padiglione zero, introduttivo; il padiglione Food in Art, dedicato all’arte e affidato a Italo Rota e Germano Celant: e il nostro, denominato Future Food District, il distretto del cibo di domani. Lavoriamo cioè su come cambia il mondo in cui i cibi vengono prodotti, distribuiti, preparati, consumati. Pensiamo quindi a due padiglioni: il primo, un grande supermercato, progettato e costruito insieme con Coop, per capire come cambia la grande distribuzione; il secondo, l’area cucine, per cui stiamo cercando un partner. In mezzo ci sarà una piazza, dove si mangia e si sta insieme.
Il supermercato non è una cosa già vista? Sì, ma può diventare un mercato del mondo dove trovare altri prodotti che vengono da Expo, organizzare una sorta di baratto, magari portare una tua ricetta e assaggiare quella degli altri. Il futuro è un mondo in cui ognuno può essere sia produttore sia consumatore, e il supermercato è un posto di libero scambio. Per questo preferiamo i tavoli agli scaffali, che sono spazi funzionali ma poco sociali. Ci saranno meno prodotti esposti, ma con le nuove tecnologie le merci venduti saranno subito rimpiazzate: celeranno in modo automatico dal magazzino, che sarà in alto. I tavoli consentono condivisione e interazioni: puoi vedere i prodotti e le altre persone, magari tra un tavolo e l’altro c’è il venditore che ti racconta l’origine del prodotto. Non a caso nel suk o al mercato ci sono tavoli, non scaffali.
Lei ha avuto la menzione al premio Renzo Piano. Lo conosceva? Cosa pensa di lui? Non lo conoscevo. Renzo ha scelto il nostro progetto per l’ampliamento di una scuola dopo il terremoto in Emilia, a Cavezze, finanziata dalle donazioni dei lettori de Il Corriere della Sera. Lavorare con lui è stato un continuo scambio di idee. A volte ci chiamava il mattino, da Parigi o da New York. dicendo che aveva avuto una nuova idea. Pur essendo un progetto piccolo rispetto a quelli cui è abituato, mi ha colpito la sua partecipazione appassionata, quasi sognante.
Come si ricostruisce dopo un terremoto? Facendo cose temporanee o definitive. Il problema sorge quando una cosa non è abbastanza temporanea per essere demolita e non è abbastanza definitiva per restare.
Tipo le new town dell’Aquila? Appunto. A Cavezzo dovevamo trasformare due scuole temporanee di legno in un progetto definitivo. Così abbiamo creato uno spazio pubblico, una piazza verde tra le due scuole, con un bosco e un giardino, «the learning garden»: i bambini possono giocare, mangiare qualcosa, fare lezioni nell’aula magna.
È d’accordo con Piano quando sostiene che non bisogna fare nuove periferie ma costruire sul costruito? Sì. La popolazione italiana non cresce. È sbagliato creare altri metri quadri. Magari riesci a venderli, ma questo significa svuotare altre aree votate al declino. Bisogna fermare il consumo scriterito di territorio. Pensi a quanto hanno sofferto in questi anni posti come le Langhe e il Monferrato Meglio riqualificare, bonificare, sistemare le zone industriali dismesse.
Come giudica la nuova urbanistica di Milano? Il complesso della Regione, con la piazza Città di Lombardia, è interessante. Per giudicare Porta Nuova bisogna aspettare che sia finita per vedere il parco.