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 2013  novembre 07 Giovedì calendario

LUCA BARBARESCHI UNA VITA 
A FARMI MALE


Una settimana dopo l’intervista, mi dicono che Luca Barbareschi ha dovuto sospendere la tournée del suo spettacolo teatrale Il discorso del re per le complicazioni di una broncopolmonite. Il giorno in cui lo avevo incontrato, all’Hotel Manzoni di Milano, si era appena sottoposto a un check-up. «Da quando ho figli piccoli mi pongo il problema degli orfani», mi aveva detto ridendo. «Il più piccolo ha un anno e mezzo, l’altra tre e mezzo (Francesco Saverio come suo padre, morto quando lui era poco più di un ragazzo, e Maddalena avuti dalla compagna Elena Monorchio, ndr)». Le altre tre figlie, Beatrice, Eleonora e Angelica, avute dalla ex moglie Patrizia Fachini, ormai sono grandi.
«Beatrice», annuncia, «mi ha appena reso nonno». Il nipotino si chiama Ruben, «che in ebraico vuol dire “il maschio aspettato”», e vive con la mamma e il papà: «Lui è uno della famiglia Pritzker, quelli della Pritzker Foundation, ebrei, ricchissimi, beati loro. Si sono conosciuti alla Stanford University. Quando l’ho saputo mi sono commosso, anche se avendo a mia volta figli piccoli mi sento poco nonno».
Il 7 novembre esce al cinema Something Good, che Barbareschi ha prodotto e diretto, e nel quale torna come protagonista dopo oltre dieci anni dal Trasformista del 2002. Il film (molto liberamente ispirato a Mi fido di te, un romanzo del 2007 di Massimo Carlotto e Francesco Abate) è stato realizzato con un cast e finanziamenti internazionali, è ambientato a Hong Kong e ruota intorno alle frodi e le sofisticazioni alimentari: «Durante le ricerche ho letto e ho visto cose orrende, la verità è che le grandi multinazionali ci gestiscono come topi».
Qui e là, Barbareschi mi racconta anche dei progetti cui sta lavorando in America e in Italia. «Una serie tv sul fondatore della Bank of America, l’italiano Amadeo Giannini, un’altra su Mennea con Ricky Tognazzi: sarà pronta nel 2014». E poi l’idea per un film «su come i grandi vecchi hanno castrato la generazione dei cinquantenni. Quando hanno arrestato i Ligresti (lo scorso luglio per bancarotta, ndr), a colpirmi sono stati i suoi figli. Ma gli esempi sono tanti. Silvio Berlusconi, o Gianni Agnelli: che cosa voleva suo figlio Edoardo? Una carezza. Si è suicidato».
A proposito di Agnelli, parecchi anni fa lei raccontò di aver avuto un’esperienza di abusi molto simile a quella che Lapo ha denunciato recentemente.
«L’ho trovato un atto di grande coraggio per uno che appartiene a una famiglia così complicata. E non ho dubbi che sia sincero, perché ha quell’iter di autodistruzione tipico di chi è stato vittima di quel genere di violenze. È un problema su cui ho lavorato tanto, prima su di me, e poi attraverso la fondazione che ho creato per aiutare le vittime e che, proprio quest’anno, ho deciso di chiudere devolvendo gli ultimi fondi all’ospedale Bambin Gesù».
Perché chiudere?
«Non mi piaceva il mondo delle associazioni legate alla pedofilia. C’è chi, in realtà, fa business. Altre sono addirittura gestite da pedofili mascherati».
È un’accusa grave.
«Non è il modo migliore per occuparti di quello che morbosamente ti piace fingendo di fare del bene?».
Tornando a Lapo?
«L’ho chiamato e gli ho raccontato la mia esperienza. Ho partecipato spesso alle riunioni degli AAA (All Addicts Anonymous, il programma che cura ogni tipo di dipendenza, ndr) e sono convinto che funzionino per chi, come me, ha passato la vita a farsi del male».
In che modo?
«Drogandomi, distruggendomi, punendomi ogni volta che ottenevo un risultato».
Di che droghe parliamo?
«Vuole i dettagli? Cocaina, alcol... Ho provato tutto».
Anche col sesso ci si può fare del male.
«Certo, e non è bello sconvolgersi e ritrovarsi il giorno dopo nel letto di qualcuno che non sai neppure chi sia. Inoltre, col tempo, ho capito che la trasgressione arriva a un punto di stallo. Lo puoi fare in due, in tre, con un altro uomo, una trans, ti leghi... Ma più in là di tanto non puoi andare».
Perché le trans?
«In generale, perché appagano il femminino che è in te. Ma se ti fai di coca e ti fai sfondare da un gruppo di trans, quella è un’altra cosa, vuol dire che hai voglia di distruggerti. E qui torniamo all’esperienza di chi è stato abusato da piccolo. Un bambino che viene violentato pensa che sia colpa sua: sei vittima di qualcosa di cui nella tua testa ti senti carnefice. Quando un adulto ti mette le mani addosso o, peggio ancora, ti penetra, provi un’emozione devastante. Se poi si tratta del tuo insegnante, c’è anche una forma di attrazione, ti senti il prediletto. Se hai una famiglia compatta alle spalle è più facile reagire, ma io ero solo: mia madre se n’era andata di casa».
Quando?
«Avevo sette anni, mia sorella uno. Una mattina mi disse: “Mi separo, me ne vado”. Le chiesi: “Dove?”. “A Roma”, mi rispose. “E io?”, le chiesi. “Beh, adesso, non è che ci andiamo tutti”. Quella frase me la ricordo benissimo. Mio padre, che era ingegnere, in quel periodo lavorava in Arabia Saudita». Chi c’era con lei? «Due zie, Lina e Piera, una con la lussazione all’anca, l’altra gobba. Bruttine ma meravigliose. Con loro sono stato per due anni prima che mio padre riuscisse a tornare».
Con sua madre non ha mai più vissuto?
«No. Quando tempo fa è stata male, non ho provato niente. Poi ho capito perché: per me era come se fosse morta 50 anni fa. Sono cresciuto con una voragine affettiva enorme. Se non dai attenzioni ai bambini, loro le cercano altrove. Ma, intendiamoci, anche se ho fatto per tanti anni psicoanalisi, non mi interessa più. “Io ho ucciso perché mia mamma...”. No. Lo hai fatto perché sei una testa di cazzo, punto».
Come si esce dalla voragine?
«Non se ne esce, però si riduce col tempo. Fino ai 40 anni, avevo rimosso il problema. Vivevo la mia vita di sesso, droga e rock’n’roll pensando fosse “creativo”».
E poi che cosa è successo?
«Avevo attacchi di ansia, il mio zigzagare emotivo non mi piaceva più. Andai da questo dottore, Andy Zamar, che ha una bellissima clinica a Londra. Mi disse: “Come lei ce ne sono tantissimi, non creda di essere né eroico né singolare”. Mi colpì molto perché delle perversioni, della bisessualità, dell’alcol tendi a “farti un film”. Invece, all’improvviso, ecco che fai parte di un plotone di milioni di persone».
Ti sgonfi un po’, immagino.
«Molto. E poi mi ha fatto capire anche un’altra cosa: guarire da questa malattia non è possibile. Se sei bravo, la tieni sotto controllo. Ancora oggi, in qualunque momento, magari mentre sto giocando con i miei figli, il cervello parte da solo e organizza una corsa al suicidio. Lo sa qual è la mia più grande debolezza? Ogni tanto vado a rileggermi il mio curriculum perché ho la certezza di non aver fatto un cazzo nella vita».
Per quello ogni volta tira fuori l’elenco? Quante serie tv, quanti spettacoli, quanti film?
«Per insicurezza, sì. Ma anche perché in Italia a qualcuno basta fare tre film per essere considerato un genio, mentre Barbareschi potrebbe anche vincere tutti i premi Nobel insieme, che non conta niente».
Un complotto?
«Sono politicamente scorretto. Dico quello che penso. Un giorno, Sabrina Ferilli mi ha detto: “Ma te pagano a te per di’ la verità?”. Dovrebbe contare quello che fai, invece delle chiacchiere, ma non è così. Fabio Fazio, per esempio, non mi inviterà mai alla sua trasmissione. E mi spiace. Non penso di dire cazzate, e sarebbe una bella occasione per parlare in modo pacato. Ma Barbareschi è di destra. Voi giornalisti idolatrate Nanni Moretti che dice di essere di sinistra, anche se in realtà è una sorta di neonazista: odia il mondo. Io, invece, sono andato con Fini e poi ho mandato affanculo anche lui (fu eletto con il Pdl nel 2008, nel 2010 passò a Futuro e libertà ma se ne andò poco dopo, ndr) perché sono un uomo libero».
Sa qual è un altro problema? È impossibile inquadrarla. Per esempio, io non so come mettere insieme il Barbareschi seduto qui adesso con quello che prende a calci le Iene in Tv.
«Io non sono un violento. Ho menato tre persone in vita mia, tutte e tre perché erano state scorrette». Vediamo. «La prima era un mio caro amico che, però, cercava di scoparsi mia moglie. Gli ho parlato, mi ha risposto: “In realtà, è un trasporto omosessuale verso di te”. Gli ho sfondato la faccia. La seconda fu Roberto D’Agostino che mi insultava in Tv. Un giorno l’ho preso per i capelli e gli ho fatto fare tutto un corridoio con la testa. Poi, però, siamo diventati amici. Le Iene montano i video a loro vantaggio. Se mi entri in casa, ho il diritto di cacciarti. Hanno fatto cadere mia figlia per terra. Se fai male ai miei bambini, ti stacco la testa».
Nella sua prima intervista a Vanity Fair, dieci anni fa, parlando del Trasformista, lei disse che l’attore Barbareschi non era spendibile, e che quel film era stato danneggiato dalla sua presenza. Ma allora perché riprovarci?
«In verità avevo pensato di offrirlo a Pierfrancesco Favino e a Elio Germano. Che cosa vuole che le dica? Spero che questa storia prima o poi finisca. Il problema è come la stampa ti vende al pubblico. Questo Paese è paralizzato dai tabù. Sto cercando di fare un film su Italo Balbo, ma sono tutti terrorizzati. In Italia non puoi dire: “Mussolini”. Ma, alla fine, in che cosa ha sbagliato? Le leggi razziali e l’alleanza con i tedeschi. E, forse, c’aveva pure ragione ad andare in culo agli inglesi. Ma appena lo dici, ti becchi del fascista».
Fa effetto sentir parlare di Mussolini in questo modo da uno che ha origini ebraiche.
«Vede? Non capisce neanche lei? Che cosa ho appena detto? Che ha sbagliato».