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 2013  novembre 07 Giovedì calendario

Paolo Villaggio, indifferente e monogamo


Paolo Villaggio è seduto allo scrittoio della sua casa romana, un palazzotto aristocratico di tre piani da gran figl di gran putt, e non si stacca dal megatelefono dirigenziale che collega gli interni delle svariate stanze: drriiin cucina, bibip sala da pranzo, dindon dispensa. C’è Gioacchino, autista tuttofare. La cameriera. La moglie Maura, sposata 58 anni fa, che chiama spesso dall’ala est. I due figli. I cani. Lui, tunica nera e giacca di pelle, ha barba e capelli tagliati alla perfezione, vanitosissimo, vero faraone. Indica oggetti che immediatamente gli si materializzano davanti, fulmina, lancia ordini: «Beva!» intima per esempio al cronista, porgendo una brocca d’acqua, senza bicchiere.
Il prossimo 12 novembre dovrà abbandonare il regno e spostarsi a Milano, per debuttare con un monologo fantaautobiografico che avrebbe dovuto avere un titolo diverso: Vita morte e miracoli… di un pezzo di merda. Poi la parolaccia è saltata: un po’ perché la sala del Teatro San Babila appartiene alla Chiesa. E un po’ perché, a 81 anni, chiudersi in un’etichetta, per quanto comoda, sarebbe un vero peccato.
Ha voglia di andare a Milano?
Poca. Da nessuna parte in Italia, sinceramente.
Dove vorrebbe andare?
A Shanghai. O a Giacarta.
A far che?
Anche il fabbro, o qualsiasi altro mestiere umiliante. Ho voglia di stare al centro di una cultura nascente, in mezzo a grattacieli di 400 metri, in una ricchezza che fa spavento, nell’euforia di un sabato sera a Manila. E, soprattutto, tra gente che abbia ancora voglia di lavorare.
È passione per il futuro o nostalgia per il fervore del dopoguerra?
A me il futuro interessa tantissimo, è una spinta naturale, e non sono di quelli che credono alla retorica dei bei tempi passati. Ma vero è che la felicità che c’era a Nervi negli anni Cinquanta era incredibile. In confronto, il carnevale di Rio, dove son stato quattro volte, è una cagata pazzesca.
Quale è stato il momento più felice della sua vita?
Lo racconto nello spettacolo: quando raccolsi alcune lucciole in un bicchiere, ai Bagni Lido di Nervi, 65 anni fa, e illuminai il viso di mia moglie che ne aveva 15. Per la prima volta mi accorsi che aveva le lentiggini. E capii che non sarei mai stato più felice.
Sua moglie però dice: Paolo non è capace di amare. Ha ragione?
Non ci credo che l’abbia detto, e non credo sia così. Forse pensa che abbia una forma grave di egocentrismo, quello è probabile.
E ha torto?
Certamente. Per lei ho avuto una serie di attenzioni particolarissime.
Fiori?
Mai. Neppure un regalo.
E quali sono queste attenzioni particolarissime?
Per esempio essere in Cina, da solo, e pensare: devo assolutamente comprare queste polpette che le piacerebbero tantissimo.
E portargliele.
No, mangiarle io. Con la sensazione precisa, però, che sarebbero piaciute anche a lei.
Un po’ come la Pina che dice a Fantozzi, nel massimo slancio di passione, «Ti stimo moltissimo».
Ma guardi che la forza per stare con una donna sessant’anni non te la danno mica i pensierini. Sa che cosa, invece? Il fatto di accorgersi, un bel giorno, che lei è la persona a cui vuoi più bene al mondo. Più bene che ai figli, persino.
Parlate mai di cosa accadrebbe all’altro, se uno di voi dovesse andarsene?
Spero di morire prima io, perché il dolore per la sua perdita sarebbe impossibile da curare.
Come definisce l’attrazione erotica che vi ha uniti?
Da parte mia, un’assoluta monomania.
I suoi amici erano tutti poligami, però.
Vittorio Gassman ha avuto decine di donne, Ugo Tognazzi pure. Ma mi sembra che la qualità del loro saper dare affetto non sia mai migliorata, nonostante l’esercizio. I risultati della bulimia amorosa sono molto scadenti.
Il sesso se l’è goduto?
Molto. Anche se la mia generazione era fatta di gente bizzarra. Gassman per esempio mica era normale. Era curioso, diciamo.
Bisessuale intende?
No, non ha capito. Quando si ritrovava a letto con una donna, come prima cosa cercava di asportarle un piccolo quadratino di pelle dal fondoschiena, usando un taglierino. Lo chiamavamo «il tassello di Gassman». Sì, insomma, era un cannibale.
Tognazzi?
È stato salvato dal caso. Un giorno, a Milano, incontra un travestito affascinante, viene colto da una curiosità tragica e decide di portarselo in hotel, vicino al Corriere della sera. Mentre sta cercando di sodomizzarlo, per strada scoppia una bomba che Tognazzi interpreta come segnale divino. Da quel giorno la sua condotta è stata più lineare.
La donna più bella di sempre qual è stata, secondo lei?
È ancora viva: Penelope Cruz.
In Italia?
Virna Lisi.
Diego Abatantuono dice che al Derby lei aveva più ammiratrici di Teo Teocoli e Franco Califano.
Beh, perché loro non erano di prima qualità, contavano meno. Io non facevo imitazioni, non raccontavo barzellette. Il padrone voleva che mi esibissi per ultimo, lasciandomi sul palco per un’ora e mezza.
Il suo migliore amico chi è stato?
Fabrizio De André.
Che cosa le ha insegnato?
Lui a me? Niente. Sono io che ho insegnato a lui il coraggio per seguire la propria strada.
Strano, si è sempre disegnato come un vigliacco totale.
Davanti alla sfida fisica lo sono, in modo miserabile. Una volta mi trovavo ad Amsterdam, con Valeria Moriconi, per girare Quelle strane occasioni. Una sera in un bar le si avvicina un bestione di colore, un immigrato del Suriname, che le solleva la gonna chiedendo con un ringhio chi fosse il suo accompagnatore. Ho finto di non conoscerla. E mi sono fatto chiamare un taxi.
De André invece è passato alla storia come protettore dei deboli.
Chi, Fabrizio? Fingevamo di essere brave persone ma eravamo delle carogne. Da ragazzi tormentavamo due omosessuali, uno dichiarato e l’altro no. Li prendevamo a pietrate, solo per il gusto di farlo. Perfidia pura.
De André non ha mai espresso pentimento?
No, mai.
Si ritiene un amico affidabile?
Sono un bidonaro clamoroso. Invitavo Paolo Fresco (ex ad della Fiat, ndr) a Cortina, a casa mia, e non mi presentavo. Una volta ho persino organizzato un Capodanno al Cairo con Tognazzi, in crociera. L’ho fatto imbarcare a Genova con la promessa che sarei salito a Napoli. E non ci sono andato.
Come festeggia i suoi Capodanni?
In nessun modo. Da cinque anni rimango a casa con mia moglie, vado a dormire alle 8 e mezza. Mi pare una conquista strepitosa.
Per che cosa si commuove?
Non mi sono mai commosso in vita mia.
È inumano...
Va bene, una volta, quando è nato mio figlio Piero, fino alle lacrime. Ma non l’ho mai rivelato a nessuno.
Chi le ha inculcato l’ideologia dell’autocontrollo?
L’ho messa a punto insieme a mio fratello gemello. Da bambini ce lo ripetevamo sempre: non bisogna lasciarsi andare, mai. Indifferenza sempre. Pure davanti alle stragi di bambini.
È diventato un vecchio livoroso.
Non me ne sono mai accorto.
Beh, dare della negra a Cécile Kyenge è da avvelenati.
Quello è un finto cinismo, che trovo adorabile, e indispensabile per stabilire la mia parentela intellettuale con altri finti cinici come Mario Monicelli. Non sopporto la retorica di quelli che vanno a Lampedusa a commuoversi. La verità è che a noi, degli immigrati, non ce ne frega niente.
Il successo da cosa l’ha salvata?
La cosa più bella è che da invidioso diventi invidiato. E più susciti invidia, più hai voglia di suscitarne. In questo senso il successo dà grande felicità.
Ha mai pensato di essere stato negativo?
Ho pensato di esserlo stato nei confronti delle persone che mi volevano bene. Poi mi sono reso conto di aver avuto una funzione terapeutica, perché il mondo è fatto per la maggior parte da persone che nella vita hanno fallito. Grazie a Fantozzi ho fatto in modo che alcuni neppure si accorgessero di essere nullità. O al limite ho fatto sì che non si sentissero soli.