Federico Ferrero, l’Unità 7/11/2013, 7 novembre 2013
ANDRE AGASSI: «HO SCONFITTO IL DRAGONE»
Dal van nero spuntano uno stivaletto, la gamba. Poi il collo che s’è fatto taurino, cinto da una collanina confezionata dal figlioletto Jaden, con una serie di lettere incise e messe in fila: daddy rocks, il mio papà è una forza. La camminata pencolante è la più famosa dello sport. Come la sua risposta di rovescio anticipata, i piedi avvitati alla riga di fondo e la palla che si piega a parabole non ammesse in algebra.
È un passo riconoscibile tra mille, imitabile al pari di Totò, lo chiamano «andatura del piccione» ma non è una gag: schiena avanti, punte in dentro e passetti veloci sono un pezzo di eredità di un’infanzia sciagurata, piagata dalla spondilolistesi. Andre Agassi è a Milano. Ha parlato al World Business Forum di sport, di ispirazione e del significato del successo a manager ignari della sua finale al Roland Garros del 1990, quella che perse contro il bradipo ecuadoregno Andres Gomez «perché la sera prima avevo sbagliato il balsamo in albergo, la parrucca mi si spostò. Mio fratello mi prestò soccorso portandomi in camera venti forcine e giocai quel match con il terrore di ruzzolare a terra, pelato, con i miei capelli finti sul campo, e di morirci».
Ha registrato un’intervista alla Rai, a Che tempo che fa, incontrato tennisofili incalliti e gente che non distinguerebbe una volèe da un soufflé eppure ha trovato nelle pagine del suo libro biografico Open, uscito in Italia per nel 2011 nella collana Einaudi Stile libero Extra, una raccolta di segreti sul mestiere di vivere che farebbero la fortuna di uno stuolo di guru, psicologi e sociologi in ansia da prestazione in libreria.
Dritto e capelli
A metà pomeriggio, post colazione chez Longines - sponsor della sua vita solidale dopo il tennis - il furgone si ferma dalle parti di corso Sempione. Il Kid di Las Vegas non è più «un taglio di capelli e un dritto», come Ivan Lendl aveva sentenziato alla vista di quel punk vestito come Johnny Rotten dei Sex Pistols, che rantolando violentava la pallina e sconvolgeva il galateo del tennis. È un uomo di 43 anni, un padre di famiglia; anche un filantropo, che ha ritrovato il filo della vita «troppo tardi, quasi a trent’anni, e non vorrei che ad altri capitasse la stessa cosa».
Per pranzo, al Kid che vent’anni fa odiava l’Italia, il suo vecchiume e si nutriva a Coca e cheeseburger, Cracco ha offerto il tartufo d’Alba: a distanza di stretta di mano, se ne avverte il ricordo. Si infila negli studi di Radio Deejay per raccontare a Linus e a Nicola Savino (a loro volta vittime della Agassite) il perché del successo clamoroso di Open. Open significa aprire e, nel gergo del tennis, è il torneo senza limiti all’accesso: J.R. Moehringer, il suo eccezionale ghost writer, lo fa dire al protagonista del Bar delle grandi speranze, il libro che fulminò Andre, convincendolo a mettere per iscritto la sua vita: non è per caso, che una porta e un libro si aprano allo stesso modo. Il Vangelo secondo Agassi è un racconto di redenzione «per uno come me che non aveva studiato, non aveva potuto scegliere la sua vita. Me ne sono trovata una già decisa e ho impiegato vent’anni per trovare il mio posto al mondo».
Lui e il cortile
Andre è un po’ stropicciato, non ha assorbito il fuso orario dal Nevada; per lui, sono le cinque del mattino dopo una nottata di incontri e bagordi culinari. Eppure si trasfigura, non appena gli si chiede conto di quella vita da fuoriclasse depresso. «Mio padre aveva comprato una bettola fuori Las Vegas misurando solo il backyard, il cortile sul retro. Aveva già stabilito che avrebbe costruito un campo da tennis per allenarmi, notte e giorno». Il piccolo Andre contro il dragone, una macchina sparapalle modificata, drogata per sputare sfere gialle più in fretta, con violenza feroce e costringerlo a colpire per evitare di essere mitragliato, abbattuto.
«Odiavo il tennis, ora non più. Ho trovato l’amore in quello che faccio dopo aver sposato la persona sbagliata», la ninfa di Hollywood Brooke Shields, «e aver mentito al mondo del tennis», quando nel 1997 cercò ristoro nel paradiso chimico della metanfetamina e la sua classifica, da numero 1, piombò nell’inferno infuocato del numero 141, la matricola dei peones.
La vittoria senza i capelli
Quando lo si muove a ricordare la vittoria più bella, il volto ora tondo e glabro, da tenente Kojak, perde anche le rughe e si accende, a mo’ di luna piena: «Oh, Parigi. Ero infortunato, avevo divorziato da 40 giorni, non ero più giovane, erano passati nove anni da quella finale persa per colpa delle mie menzogne sulla chioma, sulla mia vita di ricco e famoso per cui venivo additato come viziato, mentre invece soffrivo come un cane». Andre vinse un match di quelli che ti capitano una volta sola nella vita, sotto di due set: contro un altro Andre, con la “i” dei russi, Medvedev. Gli toccò ammazzare in un colpo lui e il vecchio se stesso, per completare il career Slam, ossia acciuffare almeno una volta nella vita i quattro tornei cardinali del tennis.
Il croupier
Andre gira il mondo per finanziare la sua College Preparatory Academy, una scuola privata. Raccatta figli di famiglie disagiate come la sua, tiranneggiata da un pugile iraniano di sangue assiro, Emmanuel Agassian, che ai crocicchi di Las Vegas litigava coi camionisti e li stendeva con gli uppercut, sotto lo sguardo terrorizzato di Andreino. Era stato Mike a decidere che quel figlio, così svelto di riflessi, avrebbe reso la famiglia ricca: lavorava come croupier al Caesar’s Palace, aveva assistito a una esibizione con Jimmy Connors premiata con una carriola zeppa di dollari d’argento e ne aveva fatta la ragione di vita, sua e di quel figlio nato per vincere «perché non esiste, mi diceva, nessuno che possa battere chi ha colpito tremila palline al giorno, tutti i giorni della sua vita».
Agassi non si è fatto troppi amici, nel circo del tennis: di Connors ricorda la spocchia, tanto che mai nella vita Andre si è fatto portare il borsone dagli addetti. Per non passare da superbo, dice. Appena si nomina Pete, il microfono cattura uno smozzicato that kind of bitch!, quel figlio di buonadonna, tanto in America non ci sentono. Pete è Sampras, il suo alter ego: classico, compassato, perfetto, noioso, la sua vita era il controcampo di quella di Andre. Non aveva dubbi, viveva per il tennis, pensava e mangiava tennis e lo batté spesso, anche in quella finale degli Us Open 1995 che Agassi non ha ancora digerito, «quella mai, perché era l’estate della mia rivincita, avevo vinto 26 partite di fila ma le avrei date indietro tutte, pur di non mollargli la 26esima a New York, quel pomeriggio». La notte e il giorno, Agassi e Sampras; Andre non gliele manda a dire neanche in Open, lo dipinge per quello che forse in fondo è, un fenomeno dello sport col cervello di un cerbiatto, taccagno all’inverosimile. Pistol Pete, dal lancio del libro, lo saluta a stento.
L’amore
Agassi ha sposato Steffi Graf, una delle più grandi tenniste di sempre. Abitano a Las Vegas, non più nei sobborghi da banlieue americana ma nel quartiere dei ricconi, con guardie armate che ti cacciano se osi fermarti un attimo di più. Jaden ha dodici anni e ama solo il baseball; Jaz Elle, di due più giovane, gioca un po’ con mamma «ma solo per divertimento». Come i coniugi Agassi: quando capita. Figurarsi se i figli di due padri padroni - anche Peter Graf non sfigurava, al festival della tirannia - forzerebbero il sangue del loro sangue a sperimentare il carcere. E quella prima casa, la bettola col campo in cemento? «La mia prigione? Quella c’è ancora, l’abbiamo venduta. L’ha comprata un signore che arriva dall’Iran, non ci volevo credere. So che ha una figlia. La fa giocare lì dietro, come me». Diventerà forte? «Naah. Chi pensa di costruirsi il campione inganna se stesso e rovina i propri figli. È una balla: la costrizione è morte, la scelta è vita». Una risposta di Agassi.