Francesca Pierantozzi, il Messaggero 7/11/2013, 7 novembre 2013
«ARAFAT È MORTO AVVELENATO CON IL POLONIO»
LE RIVELAZIONI
PARIGI Caos, fervore, veleni. Così fu la vita, così è stata la malattia, così furono i funerali, e così è oggi la morte di Yasser Arafat, deceduto l’11 novembre all’ospedale militare di Clamart, alla periferia di Parigi, riesumato il 27 novembre 2012 a Ramallah, avvelenato, forse. Con il Polonio. Ieri il verdetto dell’istituto di Radiofisica di Losanna: i risultati sostengono moderatamente l’ipotesi che la morte è stata la conseguenza di un avvelenamento al polonio-210. Che fosse stato avvelenato lo hanno sempre detto tutti: la moglie Suha per prima sul letto di morte, quando impediva a chiunque, perfino al presidente Chirac, di venirlo a trovare. Poi il nipote Nasser al-Qidwa, i dirigenti di Hamas, il popolo palestinese. Ognuno trovando un colpevole diverso: gli amici di Mahmoud Abbas, gli israeliani, gli integralisti.
Come accettare che Abu Ammar fosse stato sconfitto dalla fatica, dalla vecchiaia? Alla Muqtaa, il palazzo in rovina sulla collina di Ramallah dove ha passato gli ultimi tre anni assediato dagli israeliani, i suoi compagni d’armi lo chiamavano al-Ikhtiyar, il vecchio. Uno dei rari diplomatici che ancora poteva rendergli visita era Régis Koetschet, allora console generale a Gerusalemme. Ricorda un «uomo anziano, che ogni tanto aveva delle assenze».
LE VITTIME
Sapere che forse è stato il polonio - questo veleno che nella storia ha ucciso pochissime volte, Marie Curie che lo maneggiava, l’ex agente del Kgb Alexandre Litvinenko, quattro operai di una centrale nucleare israeliana – riporta la storia di Arafat nel suo giusto corso. Il tono scientifico dei risultati dell‘analisi condotta da dieci esperti sui suoi resti non servirà a stabilire nessuna verità ma a ridare voce a mille sospetti. «Abbiamo misurato attività di polonio-210 nelle ossa e i tessuti che erano fino a venti volte superiore ai riferimenti della letteratura medica» si legge nel rapporto. Ovvero la sera del 12 ottobre 2004, due ore dopo la cena, frugale come sempre. Arafat ha improvvise nausee, un’emicrania insopportabile. I dolori continuano, sempre più forti: i medici palestinesi e egiziani pensano a una gastroenterite, ma lui peggiora. Torna Suha dalla Tunisia, non lo vede da due anni. Arafat accetta di farsi ricoverare in Francia, gli israeliani sono d’accordo. Arriva il 29 ottobre a Percy, un ospedale militare in fondo a una stradina stretta, a qualche chilometro da Parigi, dove si accampano centinaia di giornalisti da tutto il mondo. I medici non trovano né infezioni né tumore. Nessun virus. In Palestina hanno già la riposta: veleno. Suha parla di «assassinio politico», di complotto. Tiene lontano dalla camera al secondo piano anche Mahmud Abbas. Arafat muore dopo dieci giorni di coma, e Suha, nonostante i sospetti, non chiede l’autopsia. Ieri a Parigi, dove ha ricevuto il rapporto dei medici di Losanna, ha detto di «sentirsi di nuovo a lutto». «È stato un assassinio politico», ha aggiunto. E Nabil Shalit, dell’Olp, ha chiesto un’inchiesta per stabilire «come e chi lo ha avvelenato», aggiungendo che «è stato ucciso da chi lo voleva morto». Un portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Yigal Palmor, citato dal Guardian, respinge invece le conclusioni del rapporto, rilevando che «non ci sono prove di come sia avvenuto l’avvelenamento». Non c’è pace.
Francesca Pierantozzi