Carlo Panella, Libero 7/11/2013, 7 novembre 2013
I LIBICI CI CHIUDONO I RUBINETTI DEL PETROLIO ECCO COSA RISCHIAMO
«In questo momento il terminal libico di Mellitah da cui parte quella che noi chiamiamo “Greenstream”, che raggiunge la Sicilia, è sotto attacco da parte di manifestanti che ci stanno spingendo a chiudere completamente le esportazioni verso l’Italia»: l’annuncio dato ieri da Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni conferma quanto era chiaro da mesi agli analisti: il caos libico è giunto a tal punto da minacciare direttamente gli interessi energetici dell’Italia.
Scaroni, ha attenuato l’allarme prodotto dalle sue parole aggiungendo di «non vedere problemi di approvvigionamento per l’Italia perché di petrolio ce n’è molto in tante parti del mondo e poi con questo clima particolarmente benevolo che stiamo vivendo in tutta l’Italia non vedo questo problema ».
Precisazione comprensibile in bocca al massimo responsabile dell’approvvigionamento energetico del nostro paese, che però copre una realtà molto più scabrosa. Innanzitutto perché c’è petrolio e petrolio e quello libico dei pozzi in concessione all’Eni (detto anche «light sweet crude» per la sua particolare purezza) è uno dei più apprezzati sul mercato internazionale per la scarsità di scorie e residui che ne fa il carburante d’elezione per l’autotrasporto. Dunque, un petrolio dai bassissimi costi di raffinazione e quindi dagli alti profitti, non disponibile in altri mercati.
In seconda istanza, il petrolio libico costa all’Eni, molto poco, perché è estratto in concessione e raffinato in suoi impianti. Così non è per quello che si può acquistare da altri paesi. In terzo luogo, sono assolutamente allarmanti le dinamiche che stanno dietro a questa sospensione di Mellitah. La verità è che la produzione di petrolio libico è crollata ormai a soli 90.000 barili al giorno, contro il 1.600.000 precedente alla guerra di Libia e che questo calo non è dovuto ad attacchi terroristici, ma solo alla dinamica della scena politica libica nel dopo Gheddafi. Le milizie che occupano Mellitah sono infatti parte delle “forze governative”, non sono squadre ribelli. Nello specifico sono milizie tuareg che premono in questa maniera eversiva sul governo di Tripoli per ottenere che la nuova Costituzione rispetti i loro diritti di minoranza (che invece gli arabi al potere nella “nuova Libia” sono assolutamente intenzionati a conculcare).
Ma non basta: anche tutti gli altri impianti libici sono minacciati e quasi tutti bloccati da altri “signori della guerra”, che si sono visti “regalare” dalla Nato il controllo del paese (da soli non erano assolutamente in grado di sconfiggere Gheddafi) e che ora usano del ricatto petrolifero per fare valere le loro ragioni di clan o di potere personale dei vari raìs. Da luglio, larga parte delle esportazioni petrolifere è bloccata proprio da Ibrahim al Jathran, che il governo libico aveva nominato a capo delle 17.000 guardie armate che dovevano garantire la sicurezza dei terminali petroliferi libici (Petroleum Defense Guard). Questo, nel nome della secessione della Cirenaica dalla Tripolitania che lo stesso al Jathran persegue e che ha formalmente proclamato.
Più complessa e oscura ancora la situazione nel Fezzan, la regione interna della Libia, dove si trovano i maggiori campi petroliferi. Una situazione di caos assoluto, dimostrazione inequivocabile dell’insensatezza della guerra di Libia e della sua conduzione, che obbligherà di qui a poco l’Italia a impegnarsi manu militari (come già concordato tra Enrico Letta e Barack Obama) a difesa dei nostri impianti petroliferi. Un quadro sconcertante.