Alberto Mattioli, La Stampa 7/11/2013, 7 novembre 2013
GARIBALDI IN FRANCIA CHI ERA COSTUI?
Dopo Mussolini e Verdi, Garibaldi. Insomma il «made in Italy» più noto all’estero. Ma Pierre Milza è lo storico francese che conosce meglio l’Italia (e che gli italiani conoscono meglio), così questo Garibaldi in uscita da Longanesi (pp. 450, € 22) sarà una scoperta anche per chi crede di conoscere benissimo l’eroe. Del resto, per una volta, e Milza lo ammette, l’obiettività dello storico può essere accompagnata dalla simpatia per l’uomo: «Scrivere un Garibaldi era un impegno con me stesso e anche, dopo trent’anni dedicati a Mussolini e al fascismo, il modo di pagare un debito verso l’Italia. Me lo lasci dire: io ammiro Garibaldi e il Risorgimento».
Lo sa, però, che l’Unità è attaccata da più parti: per molti è stata fatta male, per qualcuno non la si doveva fare...
«Certo, però un conto è storiografia, un altro i temi politici di oggi. Credo che l’Unità d’Italia, nella situazione politica in cui si trovava l’Europa del XIX secolo, si potesse fare solo com’è stata fatta. Da qui l’importanza di Garibaldi. Cavour e il re hanno giocato bene, sono stati abili. Ma senza Garibaldi il gioco non sarebbe riuscito».
E sull’opportunità di farla che dice?
«Che ne è valsa assolutamente la pena. Non voglio fare dell’ucronia, ma cosa sarebbe l’Italia oggi senza l’Unità? Ci sono state difficoltà, ritardi, insufficienze, ieri come oggi. Ma cosa poteva esserci d’altro? Era un passaggio inevitabile, dopo duemila anni di storia».
Garibaldi nasce francese e nella sua vita combatte sia contro che accanto ai francesi. I francesi che idea hanno di lui?
«Molto semplicemente, non sanno chi sia. Oppure l’hanno dimenticato. Quando andavo al liceo, si studiava il Risorgimento. Oggi, no. Magari i ragazzini francesi sanno chi fosse Garibaldi, ma certamente non sanno nulla di Cavour o di Mazzini. Il rapporto di Garibaldi con la Francia, del resto, è ambivalente. La sua generazione cresce francofila, poi c’è la delusione del 1849, quando Luigi Napoleone distrugge la Repubblica romana, e l’altra delusione del ’59, quando impone l’armistizio di Villafranca. Però Garibaldi, nel ‘70, andrà a combattere i prussiani in Francia. Ma perché la Francia, nel frattempo, è tornata repubblicana».
Mussolini, Verdi e Garibaldi: concesso e non dato che ci sia, cos’hanno in comune?
«Beh, intanto mi lasci dire che il bilancio di Mussolini, e di conseguenza il mio giudizio, è catastrofico, mentre quelli su Verdi e Garibaldi sono il contrario. Premesso questo, i tre avevano in comune una certa idea dell’Italia, del suo ruolo nel mondo. E anche l’origine sociale: tutti escono da una classe popolare modesta ma non miserabile, dalla parte meno prospera di quella che però resta una middle class all’americana, con anche qualche piccola ambizione di ascesa. Papà Mussolini ha un piccolo bistrot e la mamma è maestra, Verdi è figlio di un modesto oste-albergatore, il padre di Garibaldi compra un battello per fare un po’ di commercio sottocosta. E tutti e tre possono fare qualche studio, imparare un po’ di latino. In fin dei conti, nelle loro storie c’è anche l’ascesa della piccola borghesia italiana. Poi ci sono delle somiglianze, diciamo così, caratteriali».
Quali?
«Sono tutti e tre degli uomini molto appassionati, determinati, con personalità spiccate. Come politici, Garibaldi e Mussolini (e Garibaldi è un politico molto più smaliziato di quel che si crede) non appartengono certo a quella categoria di uomini di Stato “freddi”, alla fine così poco italiana, dei Cavour o dei De Gasperi».
Ladomanda su Berlusconi, lo sa, le tocca: il Cavaliere è più Mussolini o Garibaldi?
«Direi né l’uno né l’altro. In Berlusconi c’è forse più del Mussolini, perché il suo partito si muove comunque in un ambito populista. Ma Forza Italia non è il Partito nazionale fascista, per fortuna. Quanto a Garibaldi, lui è e si considera un rivoluzionario, cosa che Berlusconi certamente non è. E poi Garibaldi, dittatore a Napoli, lascia volontariamente il potere, si ritira a fare il Cincinnato a Caprera. Stando alle cronache, non mi sembra proprio l’intenzione del Cavaliere».
Lei ha passato tutta la vita a studiare l’Italia e gli italiani. Prossimo libro?
«Un’altra biografia: Pio XII. Ne ho già scritta metà, sono agli anni della guerra».
L’argomento è piuttosto scottante.
«Certo, la polemica sui silenzi. Credo però che a Pacelli spettino, diciamo così, le circostanze attenuanti. Davanti a lui c’era Hitler, che aveva in ostaggio i cattolici tedeschi. Fra i primi ospiti di Dachau, insieme a comunisti e socialisti, ci furono anche un paio di vescovi. Su Pio XII vorrei gettare uno sguardo freddo, per quanto possibile obiettivo. Non è facile. E non sempre si è fatto».