Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  novembre 07 Giovedì calendario

L’ILLUSIONE DELLA SILICON VALLEY ITALIANA NELLA CITTÀ CHE SOGNA UN ALTRO ADRIANO


Chissà se ha davvero ragione Giovanni Maggia, quando dice: «No, Ivrea non è mai stata la Silicon valley d’Italia. E le grandi risorse tecniche e di conoscenza sbandierate a mezzo mondo quando Olivetti ormai stava morendo erano poca cosa rispetto a Cupertino». Se lo dice lui, ex docente di Storia economica all’Università di Torino d ex segretario della Fondazione Olivetti, qualche ragione c’è.
Forse, quella che qualcuno chiama la «grande illusione» fu data dal sogno accarezzato da una città, Ivrea, e da una fetta - piccola - di territorio piemontese di avere un’alternativa al dominio della meccanica. E pure da quei palazzi imponenti e moderni, da quegli stabilimenti da cui uscivano prodotti informatici made in Italy. I primi.
Era il 1982 quando Olivetti lanciò sul mercato il mitico M 24. Schermo gigante e tecnologia sviluppata a Cupertino, California. Sì, la Cupertino di Apple, di Steve Jobs. Carlo De Benedetti, dai confini del mondo, da Ivrea, aveva intuito che lì c’erano conoscenze tecniche vere. E lì aprì un centro ricerche. Che anni, allora. Sessantamila occupati in Olivetti. Programmi di crescita. De Benedetti che atterrava a Ivrea in elicottero e i suoi manager che dettavano legge nella città che fu di Adriano. Olivetti, la corazzata. Che costruiva «Palazzo uffici due». E gli imprenditori che parlavano di «polo nazionale dell’informatica». E un giovane Corrado Passera annunciava un milione di pc presto sul mercato. Applausi.
Ma poi ci fu Tangentopoli che si incrocia con la prima crisi di Ivrea. Con i primi taglia al personale. Crisi. La parola gela il sangue nella città che sognava un altro Adriano Olivetti, un altro mentore o un benefattore.
Alberto Stratta era un socialista della prima ora, avvocato, uno che dava del tu al ministro Gino Giugni, il padre dello Statuto dei lavoratori. Vent’anni fa diventò sindaco di Ivrea e si trovò a gestire quel durissimo colpo. Cassa integrazione. Manifestazioni e sindacati non più pacifici. «S’intuiva - dice adesso - che l’aria stava cambiando». Che ci si era fidati troppo di un’illusione. Che l’informatica legata all’hardware si scontrava con il grandi produttori asiatici. E che i software arrivavano dall’America. Eppure in quello spicchio di Piemonte c’era fermento. C’era un’altra azienda di informatica in zona, la Honeywell Bull, a Caluso. E le scuole professionali sfornavano tecnici. E c’erano i servizi segreti di mezzo mondo al lavoro. Storie di spionaggio vere. E altre da ridere, più o meno. Come quella della impiegata che trafugò dagli uffici di Ivrea un malloppo di carte «top secret» da vendere al Kgb che l’aveva contattata. Che improbabile Mata Hari la signora bionda con la gonna sotto il ginocchio, i capelli cotonati e il marito occhialuto.
De Benedetti, intanto, era la speranza. Nel ’93 corse a Ivrea a trovare l’amico di Giugni: «Non molliano». E dal vescovo rosso allora molto temuto dai vertici vaticani, Monsignor Bettazzi. C’era paura. Gli occupati erano molti meno nella metà del 1973. E calavano ancora. Sei anni dopo è tutto diverso. Nuovi vertici, nuove proprietà. Scarmagno, il polo industriale, viene venduto. Lo spezzatino della «grande e azienda» è una raffica di cambi di proprietà, società che passano di mano, nomi che nulla hanno a che fare con il territorio: Wang Global, Getronics, Eutelia.
L’Olivetti dell’informatica, non c’è più. Ivrea torna ad essere nota per il suo carnevale dove i figuranti si prendono a botte a colpi di arance. I tecnici che lasciano la «grande azienda» aprono società informatiche. Alcune si specializzano. Altre aprono e chiudono. Qualcuna resiste ancora, ma oggi non riesce a trovare sul territorio le figure professionali che cerca. Il sogno è finito. Oggi di Olivetti è rimasto un marchio, con 500 occupati. E neanche tutti qui, a Ivrea.