Alice Corti, Oggi 6/11/2013, 6 novembre 2013
SUPERCONTI GLI ANNI MIGLIORI? I PROSSIMI (CON MIO FIGLIO)
Roma, novembre.
Scusi, Conti, prima che io me ne vada non può non dirmi qualcosa sull’emozione di diventare papa per la prima volta.
L’intervista è agli sgoccioli. Io rimedio prima uno sguardo severo e poi un sorriso. «Per prima cosa si dice babbo, non papà!», mi ricorda da buon fiorentino. «E poi non dovevamo parlare del libro? Ecco, allora vorrei dire che Cosa resterà dei migliori anni, all’inizio, era dedicato “al futuro”. Visto che gli altri due autori con cui l’ho scritto sono già genitori, quando ho saputo che sarei diventato padre ho fatto rettificare la dedica così: “Ai nostri figli e al futuro”».
Bilancio intenso per Carlo Conti: due programmi tv che vanno alla grande, Tale e quale show e L’eredità; una moglie, Francesca, sposata poco più di un anno fa; un bambino in arrivo a inizio 2014, maschio («Sembra proprio di sì, ma finché non nasce non possiamo dirlo con certezza», aggiunge.
Siamo seduti nel suo camerino negli studi Rai Nomentano: per parlare di Cosa resterà dei migliori anni. Un piccolo dizionario della memoria, come recita il sottotitolo, scritto dal presentatore con gli amici e autori delle sue trasmissioni Emanuele Giovannini e Leopoldo Siano. Da «45 giri» a «zoccoli», passando per «audiocassetta», «duplex» e «fotoromanzo», è un elenco di oggetti e mode del tempo passato.
«E un modo per riprendere il filone della memoria, diverso dalla nostalgia: la nostalgia è un sentimento di ciascuno di noi mentre la memoria è collettiva», spiega Conti. «Tutto nasce dalla trasmissione I migliori anni, in cui abbiamo scoperto come mode, oggetti, canzoni e gesti non erano solo della singola persona, ma legavano un’intera generazione. Ne è nato uno spaccato fantastico, abbiamo riaperto uno “scrigno della memoria”. Sono usciti i primi libri (Noi che... I migliori anni e Io che... ndr). Poi abbiamo pensato a una sorta di dizionario. Con oggetti o mode che sono scomparsi, come il juke box che riempiva le estati degli italiani, o il gettone telefonico che era la prima cosa che ti davano a casa quando stavi per uscire, le raccolte degli adesivi. O altri che ritornano nel tempo: come il loden, che pensavamo fosse sparito finché non l’abbiamo rivisto su Mario Monti».
La prima voce è «45giri». Se la sua vita diventasse un 45 giri, cosa inciderebbe sul lata A?
«Viva la vida dei Coldplay, perché la vita è il bene più prezioso. Bisogna amarla sempre, per quello che ti succede nei momenti belli e in quelli brutti. E io ho imparato a vedere il bicchiere mezzo pieno».
E sul lato B, quello che spesso riserva maggiori sorprese?
«Ragazzo fortunato di Jovanotti: faccio il mestiere che mi piace e che ho sempre sognato fin da bambino, quando usavo un mestolo come microfono e presentavo mio cugino che recitava la poesia di Natale. Qui ci sono arrivato con fatica e per questo ne sono orgoglioso. Per aver fatto tutto con onestà professionale e per avere guadagnato una fetta di pubblico che mi ha coccolato e fatto crescere. L’inizio magari non è stato così fortunato: ho perso il babbo che avevo solo un anno, ma forse sono diventato quello che sono per essere maturato prima. Se mi guardo allo specchio sono orgoglioso di me».
Immancabile il capitolo dedicato alla
500.
«Non poteva mancare. E stara la mia prima macchina, era bianca. E ne ho voluta una anche per il giorno del matrimonio con Francesca! L’idea è venuta a uno dei miei testimoni, Giacomino: ce l’aveva in garage e l’ha rimessa a nuovo, suggerendo di usarla per arrivare in chiesa. Io invece mi sono impuntato per guidarla anche dopo la funzione religiosa. E proprio la macchina delle nozze, ed è una delle immagini più belle di quel giorno. È la sintesi della serenità e della semplicità che contraddistingue me e mia moglie».
Ne avrà viste di cotte e di crude la sua prima Fiat ‘500.
«Direi non tante, perché a quell’epoca i sedili non erano ancora reclinabili (ride). Invece ha sentito tante “grattate” per il cambio con la doppietta. Poi ho scelto una 127, dal colore improponibile, buccia d’arancia».
Tra i giochi ormai dimenticati, ma che lei ricorda nel libro, ci sono le biglie con le foto dei ciclisti. Adesso i ragazzini preferiscono isolarsi e mandarsi messaggi con il telefonino o scriversi attraverso i social network.
«È un cambiamento epocale. Ma è un po’ come quando in quegli anni ci stupivamo per le dediche fatte alla radio. Oggi si condividono foto e pensieri su Facebook. Io invece non uso né Facebook né Twitter, sono molto riservato, non mi va di far sapere a tutti dove sono e cosa sto facendo».
Ritornando agli Anni 70-80: era l’epoca del “matusa”.
Così si soprannominavano i genitori, che chiamavamo anche “mammut” e “babbut”».
Quali erano, in quegli anni, i desideri di una madre o di un padre per i propri figli?
«Di sicuro il posto fisso. Quando dissi a mia madre che mi sarei licenziato (nel 1986, da un posto fisso come bancario per inseguire la passione di fare radio in una emittente locale, ndr) rimase sorpresa. Poi, però, mi spronò: “Se non ci credi te… vai, forza!”. Un al- ‘ ero desiderio era il famoso “pezzo di carta”. Quanti sacrifici hanno fatto le famiglie, anche quelle modeste, per farci studiare».
E oggi, quali sono le aspettative, i sogni di un genitore per il proprio figlio?
«Forse la tranquillità. Vorrei una società più equa con meno angosce, e che si recuperassero i valori perduti».
C’è qualcosa che la preoccupa?
«Sì, mi preoccupa la cattiveria delle persone, la violenza. Poi si tende a demandare: è colpa della scuola, della tv. Invece vorrei che per prima cosa si iniziasse col ritrovare la centralità della famiglia, come luogo dove si insegna l’educazione, il rispetto».
È questo ciò che cercherà di insegnare a suo figlio?
«Certo, cercherò di insegnare l’onestà e il rispetto per gli altri, ce la metterò tutta».
Parlava anche di un ritorno ai valori.
«È bello che si possa tornare a credere in qualcosa. Tra quelli della mia generazione c’era chi credeva in un’ideologia o nella religione. C’erano stimoli intellettuali che ci facevano crescere. Ora mi sembra che ce ne siano un po’ meno. Forse, però, c’è un po’ di ripresa nella fede e la nuova generazione sta riprendendo entusiasmo nella politica».
Se le dico «Papa Francesco»?
«Sono l’ultimo a potersi esprimere».
Mi riferivo alla questione della ripresa nella fede.
«Allora sì. È una figura fantastica. Ma anche Ratzinger, con il suo gesto così rivoluzionario, ha fatto una cosa fantastica. E da credente dico che capisco veramente che lo Spirito Santo sia entrato nel Conclave illuminando chi doveva fare quel nome. Ma ha anche illuminato Ratzinger nel fare la sua scelta in quel momento preciso».
Botta e risposta. Io le dico un decennio, lei mi dice qual è o quali sono state le cose migliori di quegli anni. Iniziamo con gli Anni 60, la sua infanzia.
«I Beatles».
Anni 70.
«Le radio private, sinonimo di libertà, ma anche della gavetta che ho fatto parlando ore e ore davanti a un microfono. Tutto è iniziato lì. Se non ci fossero state, forse non farei questo mestiere».
Le piacerebbe ritornare a fare radio?
«La radio è il primo grande amore e non si scorda mai. Non vedo l’ora di avere un po’ di tempo libero per tornarci. Sarà la prima cosa cui mi dedicherò quando sarò meno in tv».
Anni 80.
L’euforia di quel periodo, la disco music, la grande moda».
Anni 90.
Aria fresca» (il varietà su reti locali e poi su Telemontecarlo, in cui presentava i comici, ndr).
Dal 2000 al 2010.
«Il successo televisivo. Rai 1 da protagonista».
Dal 2011 a oggi.
«II matrimonio e l’arrivo di un figlio».