Giovanni Siciliano, Lavoce.info 5/11/2013, 5 novembre 2013
QUANTO VALE LA BANCA D’ITALIA
La cosiddetta “legge sul risparmio” del 2005 indica esplicitamente che la Banca d’Italia è “istituto di diritto pubblico”. (1) Ciò nonostante, il capitale della Banca d’Italia è detenuto quasi interamente da soggetti privati. Per sanare la singolare anomalia giuridica, la stessa legge prevede il trasferimento delle quote allo Stato o ad altri enti pubblici (articolo 19, comma 10). Per disciplinare le modalità del trasferimento, si sarebbe dovuto varare un regolamento entro il 2008. A cinque anni dalla scadenza del termine indicato, il Governo sembra ora volere affrontare la questione. Lavoce.info ne ha già parlato, evidenziando il rischio di una ingiustificata rivalutazione delle quote detenute dalle banche (pari a circa il 95 per cento) per incrementare il gettito fiscale. Il ministro dell’Economia, intanto, ha confermato di avere ricevuto il parere sulla valutazione delle quote predisposto da un gruppo di esperti della stessa Banca d’Italia: varrebbero tra 5 e 7 miliardi e la tassazione delle relative plusvalenze potrebbe generare fino a 1 miliardo di gettito fiscale. (2)
Vogliamo qui evidenziare due aspetti. Il primo è capire come si può valutare il capitale di una banca centrale. Il secondo è sottolineare perché è importante che lo Stato sia l’unico azionista della Banca d’Italia.
QUANTO VALGONO LE QUOTE?
Le quote del capitale della Banca d’Italia non possono essere valutate come un qualsiasi titolo azionario, usando, ad esempio, il metodo del valore attuale dei dividendi futuri (cosiddetto dividend discount model) o il valore patrimonio netto (capitale sociale più riserve).
I profitti di una banca centrale infatti sono di proprietà della collettività perché ottenuti sfruttando in regime di monopolio un bene pubblico, ossia il diritto di signoraggio.
Il diritto di signoraggio consiste nel diritto esclusivo di emettere passività a costo zero; il valore del privilegio è aumentato dal fatto che si tratta di passività speciali, perché irredimibili, e che quindi danno un grande margine di manovra nella gestione finanziaria. (3) Per questo motivo, gli utili delle banche centrali (cioè i ricavi derivanti dal diritto di signoraggio meno i costi di funzionamento) vengono distribuiti allo Stato. Tuttavia, non tutti gli utili della Banca d’Italia vengono distribuiti allo Stato, perché una parte significativa è accantona a riserva. Lo statuto della Banca d’Italia prevede, infatti, che possano essere accantonati a riserva fino al 40 per cento degli utili (articolo 39). Le riserve sono investite in asset che generano a loro volta interessi e proventi, che si sommano ai ricavi derivanti dal diritto di signoraggio. In sostanza, tutti gli utili della Banca d’Italia derivano direttamente o indirettamente dallo sfruttamento di un bene pubblico. I soggetti privati titolari delle quote del capitale della Banca d’Italia non possono dunque vantare alcun diritto sui quegli utili. Quindi, non ha senso applicare il metodo del dividend discount model per valutare le quote della Banca d’Italia; i privati non possono vantare alcun diritto neanche sulle riserve, perché derivano da utili non distribuiti, e dunque anche applicare il metodo del patrimonio netto non ha senso.
Si potrà obiettare che i soggetti privati hanno pagato un prezzo per acquisire le quote e dunque va riconosciuta loro una qualche forma di indennizzo. Il prezzo è stato pagato quando questi soggetti erano banche pubbliche; con la privatizzazione, soggetti privati hanno acquisito la proprietà delle quote; ma i privati, per quanto detto, non possono vantare diritti su beni pubblici.
Supponiamo di ignorare questo problema e che lo Stato voglia comunque riconoscere un indennizzo che tenga conto del prezzo pagato per acquistare le quote della Banca d’Italia. Il prezzo pagato è pari a 156mila euro, ossia il capitale nominale della Banca d’Italia; se supponiamo che le quote siano state acquistate tutte al momento della nascita della Banca d’Italia nel 1893, il coefficiente Istat di rivalutazione monetaria dal 1893 al 2011 (pari a 8.141,545) ci dice che il valore delle quote al 2011 è pari a 1,27 miliardi di euro; tenendo conto dell’inflazione 2012-2013, si arriva a un valore di poco superiore a 1,3 miliardi di euro. Si potrebbe obiettare che questo equivale a riconoscere ai titolari delle quote un rendimento reale pari a zero; in realtà, in passato, alle quote è stato riconosciuto un dividendo, per cui i titolari avrebbero un tasso reale positivo; e nel corso del periodo che stiamo considerando, non sarebbe stato facile ottenere rendimenti reali positivi su investimenti alternativi, quali ad esempio titoli di Stato o azioni. (4)
A una valutazione analoga si giunge tenendo conto dei dividendi che per statuto la Banca d’Italia riconosce ai detentori delle quote: fino a un massimo del 10 per cento del capitale (articolo 39), più un importo fino a un massimo del 4 per cento delle riserve (articolo 40). Ma lo statuto è adottato mediante norme pubbliche (approvazione tramite decreto del Presidente della Repubblica) e lo Stato ha in ogni momento la facoltà di cambiare norme che disciplinano la distribuzione di risorse pubbliche a soggetti privati. (5) Supponiamo che la Stato non voglia farlo e voglia lasciare le cose come sono. Allora, ai titolari delle quote andrebbe riconosciuto un importo che non può eccedere il valore attuale dei dividendi annui massimi distribuibili dalla Banca d’Italia. Sulla base del bilancio 2012, il dividendo massimo annuo sarebbe pari a 15.600 euro (10 per cento del capitale) più 594,7 milioni di euro (4 per cento delle riserve), per un totale quindi di circa 595 milioni di euro. Il valore di tale rendita perpetua a un tasso del Btp a 10 anni (supponiamo del 4,5 per cento) è di circa 13,2 miliardi di euro. In realtà, a partire dal 1999 la quota delle riserve distribuita ai partecipanti è stata pari solo allo 0,5 per cento (mentre in passato era ancora più bassa); usando questo dato più realistico, il dividendo atteso scende a 74,4 milioni di euro e il valore delle quote è pari a 1,7 miliardi di euro.
Quindi, a seconda del metodo, una forchetta congrua di valutazione dovrebbe essere compresa tra 1,3 e 1,7 miliardi di euro.
PERCHÉ LO STATO UNICO AZIONISTA?
È quanto meno bizzarro che un istituto di diritto pubblico abbia quote detenute da privati, ma è stato osservato che è solo una questione di forma e non di sostanza, perché non vi è nessuna possibilità che i soggetti privati titolari delle quote possano interferire nelle decisioni istituzionali relative alla vigilanza e alla politica monetaria. (6) In realtà, un problema di sostanza e di conflitto di interessi fra pubblico e privato può sorgere. Vediamo di capire perché.
Al Consiglio superiore della Banca d’Italia spetta la decisione di proporre la quota degli utili da accantonare a riserva e quindi la quota di utile da distribuire allo Stato (gli articoli 39 e 40 dello statuto prevedono, infatti, che il Consiglio possa destinare a riserva fino al 40 per cento dell’utile); al Consiglio superiore spetta anche la proposta in merito al dividendo da destinare ai partecipanti al capitale. Dividendo che a sua volta è parametrato proprio al livello delle riserve (fino a un massimo del 4 per cento delle riserve). Il Consiglio superiore è nominato dall’assemblea dei partecipanti, ossia da soggetti privati che sono titolari delle quote del capitale della Banca d’Italia; l’assemblea dei partecipanti è chiamata ad approvare il bilancio e le proposte di destinazione dell’utile formulate dal Consiglio superiore.
Non vi è alcun dubbio che la gestione della Banca d’Italia sia sempre stata improntata alla massima correttezza, trasparenza e prudenza, ma è comunque evidente il potenziale conflitto d’interessi nell’attuale assetto proprietario della Banca d’Italia: soggetti privati, tramite il Consiglio superiore da loro nominato, determinano il valore delle riserve, in base al quale, lo stesso Consiglio superiore può poi determinare il dividendo da distribuire a quegli stessi soggetti privati. (7)
Ecco perché oltre alla forma c’è anche una questione di sostanza, che è molto rilevante sul piano economico, perché il Consiglio superiore può proporre di accantonare a riserva una forte quota dell’utile (fino al 40 per cento) e perché, secondo alcune analisi, la Banca d’Italia avrebbe accumulato nel tempo riserve molto elevate. Fulvio Coltorti e Alberto Quadrio Curzio mostrano come, nel confronto internazionale, la Banca d’Italia abbia un eccesso di riserve derivante da una anomala ritenzione di utili: nei quattordici anni di vigenza dell’euro, la Banca di Francia ha distribuito allo Stato risorse pari a 5,6 volte quelle distribuite dalla Banca d’Italia, mentre la Bundesbank ha distribuito risorse per circa 12 volte quelle della Banca d’Italia; infatti, le riserve della Banca d’Italia sono pari al 6 per cento dell’attivo, contro valori pari al 2 per cento per Banca di Francia, Bundesbank e Banca di Spagna. (8)
È difficile dire qual è il livello di riserve ottimale per una banca centrale per far fronte al rischio di insolvenza. Secondo Willem Buiter, mentre una banca privata è insolvente se il valore dell’attivo è inferiore a quello delle passività, questo concetto non vale per una banca centrale perché gran parte delle sue passività (ossia la base monetaria) è irredimibile. (9) Una banca centrale è insolvente se non ha sufficienti risorse per onorare i propri impegni finanziari. (10) Gli impegni finanziari derivano dai costi di funzionamento (perché una banca centrale non può “chiudere” e deve necessariamente trovare le risorse per funzionare) e dalle passività di natura non monetaria (eventuali pagamenti in misura predefinita spettanti al Tesoro o ai titolari delle quote, altre passività non monetarie verso il settore privato); le risorse finanziarie derivano dal diritto di signoraggio. Semplificando al massimo, Buiter evidenzia come il valore reale dell’equity di una banca centrale è dato dal valore attuale dai ricavi dal diritto di signoraggio meno il valore attuale dei costi di funzionamento e dei costi del servizio di altre passività diverse dalla base monetaria. (11) Quindi, trascurando le passività non monetarie, un equity negativo per una banca centrale si avrebbe solo se il valore attuale dei ricavi da signoraggio fosse inferiore al valore attuale dei costi di funzionamento.
Quindi, l’adeguatezza delle riserve di una banca centrale va valutata rispetto al rischio di equity negativo, ossia al rischio che i ricavi siano insufficienti a coprire i costi di funzionamento. In base al bilancio 2012 della Banca d’Italia, il valore attuale dai ricavi dal diritto di signoraggio (9,4 miliardi di euro, cioè ricavi per 6,8 miliardi di euro più accantonamenti al fondo rischi generali per 2,7 miliardi di euro) è stimabile in circa 209 miliardi di euro (al tasso del 4,5 per cento), mentre il valore attuale delle spese di funzionamento (pari a circa 1,8 miliardi di euro) è stimabile in circa 90 miliardi di euro: l’equity effettivo della Banca d’Italia è quindi stimabile in 120 miliardi di euro, cioè circa il 23 per cento dell’attivo “rischioso” che frutta interessi e proventi che formano i ricavi da signoraggio (abbiamo cioè escluso dall’attivo circa 100 miliardi di euro di oro che supponiamo non fruttare proventi). (12) Il rischio di equity negativo sembrerebbe quindi trascurabile e, in teoria, non ci sarebbe bisogno di detenere riserve.
La Banca d’Italia ha invece riserve per 22,5 miliardi di euro e un fondo rischi generali per 13,2 miliardi di euro, cui si aggiungono riserve per la rivalutazione dell’oro e riserve valutarie per altri 86,9 miliardi di euro e accantonamenti per rischi specifici e per il personale per oltre 8,1 miliardi di euro, per un totale complessivo di circa 131 miliardi di euro (pari a circa il 21 per cento del totale attivo e 73 volte le spese di funzionamento). Il Consiglio superiore ha poi proposto l’accantonamento a riserva del 60 per cento dell’utile netto 2012 (un miliardo circa, su 2,5 miliardi di utile netto), cioè la misura massima prevista dallo statuto.
Il tema delle riserve della Banca d’Italia è complesso e molto rilevante sul piano finanziario; si presta a diversi approcci di analisi, ma non può essere di competenza di soggetti privati. Solo lo Stato può decidere sulla destinazione di risorse prodotte con beni pubblici. Per questo è importante che lo Stato sia il solo azionista della Banca d’Italia.
Note: (1) Legge n. 262/2005.
(2) “Bankitalia vale fino a 7 miliardi”, Milano Finanza, 30/10/2013.
(3) La base monetaria è quindi un’attività per il settore privato ma non è una passività par il settore pubblico/banca centrale (cfr. Willem Buiter, Helicopter Money: Irredeemable Fiat Money and the Liquidity Trap, NBER working paper, dicembre 2003).
(4) In un mio lavoro del 2001 ho mostrato come nel periodo 1906-1998 il rendimento reale di titoli di Stato italiani è stato ampiamente negativo, mentre il rendimento reale delle azioni è stato sostanzialmente nullo (cfr. Cento anni di borsa in Italia, Il Mulino, 2001, tav. 2.6 pag. 95).
(5) In realtà, la disciplina dell’articolo 10, comma 2, del Dlgs 43/1998 prevede che le modifiche dello statuto della Banca siano prima deliberate dall’assemblea straordinaria dei partecipanti. È dunque altamente improbabile che le banche private che partecipano al capitale della Banca d’Italia rinuncino al privilegio di vedersi distribuito un dividendo sui profitti della Banca centrale. Lo Stato, tuttavia, con una legge ordinaria, ha comunque facoltà di modificare lo statuto della Banca d’Italia, come già avvenuto con la legge sul risparmio del 2005.
(6) Si veda l’intervista al direttore generale della Banca d’Italia sul Sole-24Ore del 6/9/2013.
(7) Più in generale, Pietro Garibaldi e Guido Tabellini sottolineano l’anomalia per cui al Consiglio superiore, espressione di soggetti privati, spetti l’amministrazione generale della Banca d’Italia, inclusa la gestione del patrimonio immobiliare, la politica del personale, etc. (“Cosi Bankitalia allo Stato”, Il Sole-24Ore, 5/10/2005).
(8) Si veda Il Sole-24Ore del 5/9/2013.
(9) Vedi Willem Buiter, “Can Central Banks Go Broke?”, Cepr Policy Insight, n. 24, maggio 2008.
(10) Una banca centrale potrebbe sempre emettere moneta, ma ciò non sarebbe accettabile per gli effetti inflazionistici che ne deriverebbero, e quindi escludiamo questa eventualità nel seguito del discorso.
(11) Si tratta del valore attuale dei flussi di cassa degli asset detenuti all’attivo (titoli di Stato, crediti verso banche, riserve valutarie e oro) che è sostanzialmente pari all’attivo della banca centrale valutato ai prezzi mercato. Semplificando al massimo, Buiter argomenta che il patrimonio netto effettivo di una banca centrale è dato dal valore dell’attivo al netto delle passività diverse dalla base monetaria (poiché questa è irredimibile) e del valore attuale dei costi di funzionamento.
(12) Il tasso di sconto è importante perché deve contenere un adeguato premio al rischio che riflette la natura dei flussi di cassa da scontare; supponiamo che i flussi derivino da titoli di Stato italiani e da crediti verso banche collateralizzati da titoli di Stato italiani; le riserve valutarie sono invece normalmente investite in titoli con un rating più elevato di quelli della Repubblica italiana. Il tasso del Btp decennale (circa 4,5 per cento) è quindi appropriato, o comunque sufficientemente prudenziale, rispetto alla rischiosità dei flussi di cassa da scontare. Per i costi di funzionamento usiamo un tasso risk-free dato dall’Irs a 10 anni (circa 2 per cento), poiché si tratta di flussi non rischiosi, ossia spese che devono essere sempre sostenute perché una banca centrale “non può chiudere”.