Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  novembre 06 Mercoledì calendario

BOLOGNA, NELLA CLASSE DOVE SONO TUTTI STRANIERI “VI SPIEGHIAMO PERCHÉ NON SIAMO RAZZISTI”


BOLOGNA — Sì, sui segnaposto colorati sopra i banchi della prima A ci sono solo nomi stranieri. Ma la melodia di flautini che esce dalle finestre della scuola media Besta, per quanto stonata, «almeno è un linguaggio universale», si consola la prof di musica Maria Francesca Ferrari, amareggiata per il clamore sulla “classe ghetto”. «Questa è una scuola di frontiera, difficile. Io credo che il preside abbia voluto affrontare un problema». Una frana, una valanga di problema. Dicono dati della Questura che entro la fine dell’anno scolastico verranno nel bolognese, per ricongiungimento familiare, 753 minorenni da inserire. «E chi è che ghettizza», sbotta il professor Emilio Porcaro «chi prova a dare risposte, oppure chi chiude la porta di scuola dicendo “non c’è posto, andate altrove”?» Non ci sta a passare per ghettizzatore, lui preside a San Donato, scuola-simbolo dell’integrazione da vent’anni, corsi di alfabetizzazione per adulti, per ragazzi in ospedale, in carcere. Un basso edificio di cemento nel verde, dominato dalle torri della Fiera, quartiere ad alta intensità di immigrazione, frontiera di una città da tempo insicura, spaventata, ma ancora reattiva.
Questa è proprio una storia di reazioni sociali sane in un contesto di affanno. Sana è stata la reazione di un preside che a fine agosto «con le prime classi già fatte e piene», s’è visto piovere in segreteria quindici ragazzini tra gli 11 e i 14 anni, stranieri, da Pakistan, Moldavia, Sri Lanka, Cina, Egitto, dalla letale Siria, e s’è inventato qualcosa. Ha chiesto una classe in più, «perché non c’è altro modo per avere insegnanti e soldi, ma poi non abbiamo fatto una classe, con quelle risorse abbiamo creato un ambiente, un laboratorio di transizione alla lingua. Semplice, banale. Ma l’alternativa era: arrangiatevi».
Sana però è anche la reazione di un gruppo di genitori (sei su otto rappresentanti) che si sono chiesti se anche un laboratorio, se frequentato da soli stranieri, non diventi una separatezza rischiosa. «Noi la parola ghetto non l’abbiamo usata», giura Roberto Panzacchi, presidente del Consiglio d’istituto, ex consigliere comunale dei Verdi, «la buona fede di preside e insegnanti non è in dubbio, ma si possono fare errori». Quali? «Poco coinvolgimento dei genitori. Troppo fai-da-te: il problema supera i confini di una singola scuola. E non aver capito che si crea un precedente pericoloso, molti diranno “bene, facciamo classi separate come a Bologna”». Curioso ribaltamento delle parti. Lo schema di questo tipo di polemiche prevede che la scuola mescoli italiani e stranieri, e che i genitori insorgano contro perché “rallenta l’apprendimento dei nostri figli”». Qui accade il viceversa. Sul piazzale, i genitori discutono con problematica serenità. Cristina: «Ho una figlia dislessica e ha più problemi coi compagni italiani più grandi che con gli stranieri». Milena e Vanessa: «Questa non è una scuola razzista, ma se uno sa zero italiano come fa?». I genitori stranieri volevano una scuola per i loro figli e l’hanno avuta: «Ho scelto questa classe per il progetto pilota, ero preoccupata proprio per la lingua », scrive una mamma moldava in sostegno al preside. Fumala, bengalese, è più prudente: «L’italiano lo impari se stai con gli amici, per un po’ soli stranieri va bene, dopo no». La pensa così uno dei ragazzi della prima A, 14 anni, pakistano, smilzo e sveglio: «Dopo quattro mesi parlo italiano e voglio stare con gli italiani. Un mio amico è andato in terza, voglio andarci anche io».
«E ci andrà, ci andrà», garantisce il preside. «Questa non è una classe, è un ponte. Erano 14 a fine settembre, due le abbiamo passate in terza, poi sono diventati 20 coi nuovi arrivi, perché qui mica finiscono di arrivare, ci capiamo? Ora ne trasferiamo altri due, è così, come una fisarmonica». Intanto, però, stanno fra stranieri. «Ma non è così! Palestra, uscite didattiche, assieme italiani e stranieri. I pakistani che sanno l’inglese vanno alle lezioni d’inglese nelle altre classi. Presto alcuni ragazzi italiani faranno da tutor a quelli della prima A. Ma quale ghetto, su...».
Il sistema scuola si è schierato col preside: «Bisogna ringraziare questa scuola invece di criticarla a priori», il dirigente dell’Ufficio scolastico regionale Stefano Versari è netto, «non vedo ghetti». La Regione annuncia «vigilanza» su un esperimento che comunque, svela, era già stato avviato a Reggio Emilia, senza polemiche. Invece la politica si scatena, si divide con riflessi pavloviani, senza andare a vedere, sinistra contro, destra per, e la Lega incassa: «Questo è il modello!».
«Ma quale modello», il preside Porcaro scuote la testa, «è un esperimento di questa scuola, in questo momento.
In un’altra condizione avremmo fatto scelte diverse. La politica ci lasci lavorare». I critici mantengono le critiche, ma non alzano il livello dello scontro: «Io e Porcaro siamo soci, vogliamo il bene della scuola», dice Panzacchi, «discuteremo per capirci». «Discuteremo, sì», riprende il preside «ma non ce lo meritavamo, di finire sui giornali come “la scuola che fa il ghetto”. In questo paese chi prova a fare, poi le prende».