Federico Fubini, La Repubblica 6/11/2013, 6 novembre 2013
MESSAGGIO DA BRUXELLES: NIENTE SCONTI SULLE TASSE
LA STAGIONE delle verifiche europee è solo agli inizi, ma si è subito capito che non sarà di tutto riposo.
CON il pugno di ferro in un guanto di velluto tipico di quando fa sul serio, la Commissione ha presentato all’Italia e all’area euro un messaggio che, all’osso, dice: la crisi è finita; siamo passati a una fase cronica che non prevede più collassi improvvisi, ma resta invalidante. Invece di un nuovo equilibrio, ora nell’area euro regna una tensione che non potrà continuare all’infinito senza che si creino altri strappi.
In questo, l’Italia è un concentrato delle incoerenze dell’Europa dopo il panico della fase 2010-2012. Com’era prevedibile, l’esecutivo di Bruxelles non smentisce il governo sulla sua promessa che i vincoli europei sul deficit verranno rispettati. Nella casella del 2013 compare l’agognato 3%. Affermare il contrario sarebbe equivalso a uno schiaffo a Letta e Saccomanni, con il solo risultato di indebolire premier e ministro dell’Economia di fronte a chi in questo Paese finge che non esista alcun vincolo di bilancio.
Questa però è solo la prima parte della storia, per come la si vede a Bruxelles. Le sfumature e i bemolle che ci ha messo Olli Rehn lasciano infatti capire che secondo lui il rispetto di quell’impegno sul deficit non è ancora al sicuro. Il commissario Ue agli Affari monetari precisa che, qualora servisse, entro l’anno il governo dovrebbe far scattare le «clausole di salvaguardia » per far tornare i conti. A Roma si chiama manovrina. Ma soprattutto, Rehn aggiunge che il 3% sarà centrato solo a condizione che il governo «riscuota tutte le tasse previste» di qui a fine anno. È un’espressione sibillina. Al commissario europeo non sfugge che, in mancanza di una misura esplicita, per ora la seconda rata dell’Imu formalmente resta da versare a metà dicembre. Il messaggio fra le righe è che, se vuole rispettare gli impegni europei, il governo rischia di aver bisogno di quei 2,5 miliardi della rata della tassa sulla prima casa. Non è un caso se Saccomanni ha subito ammesso che rinunciarvi «è difficile», benché il ministro sappia benissimo che in razza di campo politicamente minato si stia addentrando con quella frase.
Ma, appunto, questo è solo l’inizio della stagione europea. La settimana prossima la Commissione darà il suo parere sulla legge di Stabilità per il 2014, che poi andrà all’Eurogruppo dei ministri finanziari per un parere definivo da dare entro il mese. Con le nuove regole, le istituzioni di Bruxelles possono obbligare l’Italia a rivedere la manovra. Rehn ha già indicato che studierà bene la qualità e la tenuta delle misure da 8,5 miliardi per ridurre il deficit. Ed è difficile che lui e i ministri finanziari siano in vena di indulgenze a poco prezzo, a maggior ragione in questa area euro in cui nessuno di fida più degli altri.
Del resto il panorama di macerie del dopo crisi non aiuta. Sette Paesi dell’euro quest’anno decrescono, senza alcuna felicità. Olanda e Finlandia, nazioni emblema di competitività e rigore, prime alleate della Germania, sono in recessione per il secondo anno di seguito. Il debito pubblico di sei Paesi, fra cui Spagna e Francia, è avviato a superare il 100% del Pil: la stessa soglia dov’era l’Italia appena sei anni fa. L’Irlanda e soprattutto il Portogallo sono indebitate oltre il punto in cui la promessa di ripagare tutto rimane credibile. E la spesa pubblica di Parigi si avvicina ai livelli della Grecia: la Francia resta il solo Paese in cui sia il governo che i privati continuano ad indebitarsi.
Intanto, il crollo degli investimenti nell’area euro dal 2009 è stato di un colossale 19% e per l’Italia del 26,8%. Sono i segni di perdite permanenti di impianti, lavoro, competenze, modernità. Una semplice ripresa non basta a cancellare le tracce di un terremoto del genere. In questa desolazione, la stessa Germania cresce da due anni di uno zero- virgola, vive anch’essa un calo del credito alle imprese, eppure continua ad ammassare un avanzo commerciale di oltre 180 miliardi l’anno: come se la sfiducia verso il resto d’Europa paralizzasse qualsiasi comportamento razionale delle famiglie, che spendono molto meno di quanto potrebbero.
Questo è il panorama dell’area che oggi ha la moneta più forte del mondo: una moneta così rivalutata da complicare persino l’export dei Paesi che cercano di riemergere vendendo merci al resto del mondo. Jean Pisani-Ferry, il capo della pianificazione economica di Parigi, ricorda il vecchio detto del premio Nobel Paul Samuelson: «Siamo nati con due occhi per poterne tenere uno sulla domanda e l’altro sull’offerta». Ma oggi quest’Eurolandia così austera da accumulare un surplus sul resto mondo di 350 miliardi l’anno, una cifra che fa rimpicciolire la Cina, non ha né l’una né l’altra. Non ha domanda di consumi e investimenti, perché la sfiducia fra Paesi produce tassi d’interesse troppo alti, una moneta troppo forte e un rigore di bilancio di cattiva qua-lità, dettato com’è da preoccupazioni politiche e non dalla logica economica. E non ha offerta, cioè non ha capacità di competere nel mondo, in un centro nevralgico del sistema come l’Italia. I numeri presentati ieri a Bruxelles dicono che questo Paese ha perso in due anni quasi due punti in produttività (ossia in efficacia nel creare prodotti buoni e in tempi rapidi), mentre per la Spagna ne guadagnava 5. I volumi di export quest’anno sono rimasti fermi, dice sempre la Commissione, mentre sono saliti del 5% per Spagna e Portogallo.
Proprio l’Italia privata dei due occhi di Samuelson, quelli della domanda e dell’offerta, è il terreno dove si vince o si perde la battaglia per l’euro. Se riuscirà a prendere la via giusta per tornare competitiva e ricostruire un rapporto di fiducia con la Germania, forse i due Paesi insieme potranno accordarsi su un nuovo equilibrio per il sistema: con più offerta, ma anche con più consumi tedeschi e più stimolo alla domanda. E forse solo la vecchia Europa poteva nascondere tante complicazioni dietro il solito feticcio del 3%.