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 2013  novembre 06 Mercoledì calendario

LIBIA, COME VINCERE LA GUERRA SENZA CONQUISTARE LA PACE


Continuo a chiedermi chi sono stati i beneficiari e chi i perdenti nella guerra che ha portato al defenestramento di Gheddafi (a parte quest’ultimo e la sua stretta cerchia, ovviamente). Intendo sia a livello interno che  — soprattutto — delle potenze internazionali. Il giornale Haaretz ha pubblicato una sommaria analisi della situazione da cui emerge un Paese in pieno caos, in cui le promesse delle potenze intervenute nella guerra sono del tutto disattese. Tuttavia non vi ho trovato alcun elemento che possa aiutare a rispondere ai miei dubbi su chi abbia tratto vantaggio dal sanguinoso intervento militare, se si prescinde dalle milizie che a quanto pare fanno il bello e il cattivo tempo in quel Paese.
Simo Beraha

Caro Beraha,
I l caso libico è tragicamente semplice. Con l’assistenza po’ dubbiosa e riluttante degli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna hanno duramente colpito dall’aria gli obiettivi del dispositivo militare di Gheddafi, hanno generosamente armato gli insorti, li hanno assistiti durante le loro operazioni militari. Il regime del colonnello non sarebbe crollato se i ribelli non avessero potuto contare sulla continua assistenza delle maggiori potenze militari dell’Occidente. Ma Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno armato gruppi con cui non avevano alcuna familiarità e, dopo la vittoria, non hanno voluto lasciarsi coinvolgere nella riorganizzazione politica della Libia. È comprensibile. Dopo ciò che era accaduto negli anni precedenti in Afghanistan e in Iraq, nessuna potenza occidentale era disposta a occupare il Paese per avviare un processo di ricostruzione politica ed economica. Ma era logico assistere formazioni e milizie di cui non si conoscevano i capi e i programmi?
Siamo da allora prigionieri di un paradosso. I vincitori della guerra hanno sconfitto il Paese, ma non vogliono assumersi la responsabilità di governarlo, e gli oppositori del regime di Gheddafi formano un’accozzaglia di gruppi in cui le principali caratteristiche sono la lealtà tribale, il fanatismo religioso o il desiderio di sfruttare la ricchezza del Paese a proprio vantaggio. Negli scorsi giorni, quando un commando delle forze speciali americane si è impadronito di un militante di Al Qaeda che operava in Libia, un gruppo libico ha vendicato l’«onore nazionale» catturando per qualche ora il presidente del Consiglio libico. Voleva impadronirsi del potere? No, voleva soltanto affermare la propria presenza e fare capire al governo che era in grado d’intervenire ogniqualvolta l’interesse del gruppo fosse stato in gioco.
Gli Stati Uniti vorrebbero che l’Italia si occupasse maggiormente della Libia e il presidente americano lo avrebbe ripetuto a Enrico Letta durante il recente incontro di Washington. Esiste un memorandum italo-libico, firmato a Roma nel maggio del 2012, per l’addestramento delle forze armate libiche. Esistono una missione militare italiana in Libia e la rete di relazioni che l’Eni ha costruito durante i decenni della sua presenza nel Paese. Ma non esiste ancora un’autorità libica capace di prendere impegni e di mantenerli.