Domenico Quirico, La Stampa 6/11/2013, 6 novembre 2013
LA GUERRA INFINITA PER I MINERALI TREGUA IN CONGO
Le guerre africane: ogni volta che provi a raccontarle si impossessa di te una sorta di assenza, di letargia inquieta. Forse è impossibile narrarle: non ci sono fronti, avanzate, ritirate. Nessuno tra i combattenti è quello che racconta di essere.
I ribelli non sono rivoluzionari ma banditi, i governativi hanno le uniformi ma si battono non per idee astratte o per la paga che non c’è, ma per il bottino, le donne da violare, l’etnia nemica da sradicare.
Nel Kivu, l’Est del Congo, ti accorgi subito che ci sono due mondi. C’è un mondo di giorno dove comandano apparentemente i soldati, il remoto governo di Kinshasa, i caschi blu, insabbiati qui da vent’anni per far la guardia, sentinelle metafisiche e frustrate, a una pace che non c’è. E poi c’è il mondo della notte dove comandano gli altri: i ribelli, le bande dei guerrieri bambini, le milizie comandate da stregoni che garantiscono l’invulnerabilità con pozioni e formule magiche, il mondo degli spiriti dei fantasmi degli incubi. Uomini cenciosi, ma con i kalashnikov, emergono dalle foreste, occupano per qualche ora città, saccheggiano miniere, distruggono basi di soldati affamati e senza scarpe che vivono di elemosine, portandosi dietro le famiglie e le bestie. Poi, all’alba, la luce li ricaccia nel buio del baldacchino arboreo. La foresta è come un muro, tanto è spessa e fitta. Ciascuno lì è piccolo, questa terra non sembra fatta per gli uomini. Sopravvivere è una lotta continua, non sai mai cosa ti assalirà, una fiera, un serpente, un altro uomo.
Le guerre, qui, sono legate a nomi misteriosi, alla tavola di Mendeleev: il tantalio per esempio, un metallo che resiste alla corrosione. Lo scavano qui in queste foreste uomini disperati, con la vanga, le mani, impastati di sudore. Tante piccole mani stanno distruggendo la grande foresta. E la cassiterite? Chi l’ha mai sentita nominare? Serve per leghe speciali e per saldare: anche questa si nasconde in questa terra nera come il sangue raggrumato. Come il coltan, l’oro, il tungsteno.
È per questo che questa parte dell’Africa è piena di crudeltà, da sempre, che fatichi a sopportare, lungo il grande fiume largo come un mare, nelle foreste che parlano di fatiche immani e di calure. Vorresti usare la parola tragedia, ma è troppo lampante per un dolore diffuso ed eterno quanto il lieve scolorimento dell’avorio con il passare del tempo. Negli spazi pesticciati e pieni di lordura delle città, lungo le colate di lava uscite dalla rabbia periodica dei vulcani, milioni di essere umani attendono folli di paura, il loro destino, respirando ogni giorno l’odore della morte.
La convinzione che sta alla base di tanta angoscia e passione umana, che cioè esiste una giustizia a questo mondo, in Kivu trova la brutale smentita: povertà speranze deluse la morte, ecco le guerre d’Africa.
Quelli che sembravano protagonisti, eroi scompaiono nello spazio di una notte, come se le foreste e i fiumi li avessero inghiottiti.
Nel Kivu, nel 2004 apparve un uomo di nome Nkunda, alto e sottile, in testa un largo cappello da cowboy, in mano una canna da passeggio che, nella foresta, teneva in mano come un personaggio della «Recherce». Era un uomo di guerra, le sue milizie, formate da tutsi, presero Bukavu (e le sue miniere). Giornalisti di tutto il mondo ciabattavano nel fango, facevano la fila massacrati dalle zanzare, per raggiungerlo e intervistarlo. Decine di migliaia di profughi trascinandosi dietro le loro povere cose fuggivano nelle foreste quando veniva pronunciato il suo nome. Un giorno Nkunda sparì, con i suoi guerrieri implacabili e i suoi preziosi minerali rubati. Marcisce in prigione in Ruanda, i suoi padroni lo hanno abbandonato.
Nell’aprile del 2012 un suo luogotenente, Bosco Ntaganda, un altro tutsi, sbucò dalla foresta con bande di giovanissimi guerrieri. Il mondo scoprì l’M23, il nome era collegato agli accordi di pace firmati con il governo congolese mai rispettati, come sempre accade in Africa. M23 ha occupato la città di Goma lo scorso anno per qualche giorno. Poi si è ritirato. Non dalle miniere. Ieri i ribelli hanno annunciato di «porre termine alla ribellione contro il governo congolese». Si smobilita, addio alle armi. Alcune ore prima erano cadute le ultime basi nel nord del Kivu, duecento uomini aggrappati a due colline. Un’altra storia finisce. A chi viene da fuori, l’Africa sembra sempre in divenire, sul punto di essere trasformata in qualcos’altro. Per questo suscita speranza, ambizioni, delusione, irritazione.
M23 esce di scena, sconfitto, rinnegato dai suoi padroni, Ruanda e Uganda, che hanno cambiato strategia. Ma questo non vuol dire che nel Kivu scenderà la pace. Ci sono i Maj Mai, milizie tribali che hanno combattuto contro tutti, Mobutu, Kabila, i ruandesi gli hutu e i tutsi. Il loro programma, l’ideologia? Controllare le strade che portano dalle miniere a Goma e prendere, armi alla mano, la tangente sui carichi di preziosi. Poi ci sono i miliziani del Fronte democratico per la liberazione del Ruanda: il nome inganna, sono i killer del genocidio, gli anni sono passati, cacciare i tutsi da Kigali è un sogno. Controllano, anche loro, zone minerarie , così il Congo è diventata la loro nuova patria. Il Male, qui, ha perso la sua qualità soprannaturale, è qualcosa che non può essere abolito dalla forza delle leggi o del denaro, o forse semplicemente dalla morte. Quando un personaggio muore il Male non muore con lui. In Africa il Male è abituato ad aggirare l’eternità.