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 2013  novembre 05 Martedì calendario

LE DUE FACCE DELL’IMPRESA ITALIANA


Non solo prede. Le imprese italiane nel resto del mondo sanno anche essere cacciatori a prezzi di saldo. Acquisizioni, joint-venture ma pure stabilimenti da rilevare (brownfield) o da impiantare da zero (greenfield), l’articolata mappa degli investimenti esteri che banche e imprese italiane svolgono è tutt’altro che una curva piatta. Anzi, rispetto agli investimenti esteri che non sappiamo più attrarre riflettono un certo dinamismo e la consapevolezza che crescere di più e meglio all’estero serve soprattutto a mantenere fatturato e occupazione anche in Italia. Consapevolezza che crisi e recessione hanno acuito.
I dati
Secondo le ultime elaborazioni dell’Ice su dati Banca d’Italia, nel 2012, gli investimenti diretti esteri in uscita (outward) sono stati di 23,1 miliardi di euro, quasi il doppio (12,4 miliardi) rispetto a quelli in entrata (inward). Siamo lontani dai 34 miliardi di euro di flussi all’estero investiti nel 2006 (quando anche quelli in entrata erano a 33 miliardi), ma anche dai 15 miliardi del 2009.
Ma dove vanno, all’estero, i flussi di investimento italiani? Secondo le elaborazioni Ice, oltre la metà (51,5%) resta in Europa, un terzo (30%) va in Asia, il 13% in Africa, il 5% in America (Sud e Nord) e appena lo 0,5% in Oceania. Ma i dati vanno interpretati e i 2,8 miliardi di investimenti diretti nei Bric (cioè la somma dei flussi destinati nel 2012 a Brasile, India, Russia e Cina) restano comunque inferiori agli investimenti diretti nel continente africano e lontanissimi dal dato europeo.
«C’è un problema di attrattività del Paese - spiega Alessandra Lanza, responsabile Analisi e ricerche economiche di Prometeia -. Ragion per cui anche noi andiamo di più all’estero, anche se investiamo oltreconfine un terzo dei tedeschi (66 miliardi, ndr.) . Noi però investiamo di più in attività tradizionali e meno in quelle altamente tecnologiche».
«Bisogna leggere attentamente i dati - afferma Marco Mutinelli, ordinario di Gestione aziendale all’Università di Brescia -. Intanto, è abbastanza fisiologico che gli investimenti crescano di più nei Paesi emergenti che in quelli "maturi". Diciamo che da noi sono particolarmnte bassi entrambi. Negli ultimi dieci anni, poi, il flusso degli investimenti in entrata non è costante ma ha dei "picchi" verso l’alto e verso il basso legati al fatto che gli Ide (in entrata e in uscita) sono talmente bassi in valore assoluto rispetto a quelli dei nostri partner Ue che basta una grossa operazione di investimento "una tantum" di Fiat, Telecom e altri grandi player nazionali a fare "schizzare" il totale degli Ide outward in un anno e, in assenza di eventi analoghi, a farlo crollare l’anno dopo. È stato così nel 2005 con l’acquisto della tedesca HypoVereinsbank da parte di Unicredit, ad esempio, anno in cui gli Ide in uscita hanno toccato i 70 miliardi di euro o nel 2007 di Endesa da parte di Enel. Ma non è un dato strutturale».
Una parte rilevante degli investimenti, poi, continua ad andare nei Paesi dell’Est Europa, dove già la presenza italiana è consolidata. In Polonia, Russia, Romania. «Ma dietro i 5 miliardi di euro verso i Paesi Bassi - afferma ancora Mutinelli - ci sono probabilmente holding di società, anche extraeuropee, che trovano base lì soprattutto per motivi fiscali».
Secondo uno studio di Kpmg sul solo capitolo delle acquisizioni, dal 2009 ad oggi, gli italiani hanno compiuto 241 acquisizioni di aziende all’estero per un valore di circa 23 miliardi di euro. Saldo comunque negativo rispetto alle 363 aziende italiane acquistate da stranieri per 47 miliardi.
Le aziende
Alla Ids tutto è cominciato vincendo un appalto con la Marina britannica. Era il 2000, spiega Franco Baldelli, presidente della pisana Ingegneria dei Sistemi. «Prima si costruiva la nave, si montavano tutti gli apparati e si verificavano che non interferissero tra di loro - racconta Baldelli -. Ora si sperimenta tutto al computer con un software prima di avviare la costruzione, con grande risparmio di tempo e di costi. Gli inglesi hanno indetto una gara internazionale per un software analogo. Abbiamo vinto e da lì abbiamo cominciato a investire all’estero».
Ids (60 milioni di euro di fatturato stimato nel 2013 e 520 addetti) nasce nel 1980 specializzandosi in alta tecnologia ingegneristica nei settori navale, aeronautica, aeronavigazione e georadar. Nel 2011, Ids acquisisce un competitor prezioso per know how ma in pratica fallito, la canadese Ubitech per 4 milioni di euro. «Abbiamo speso altri 1,5 milioni per il rilancio, mantenendo i 90 dipendenti. Nel 2012 avevamo già fatturato 8,5 milioni di euro, quest’anno supereremo i 9 milioni. «In realtà in Canada cominciamo ad investire anche in ricerca, con l’università dell’Alberta e la McGill».
«Abbiamo cominciato a investire nel 2000 - ha spiegato Fantoni dell’omonimo gruppo friulano (pannelli e rivestimenti in legno, 970 addetti a 340 milioni di fatturato) - acquisendo la Lesonit. Lo Stato sloveno privatizzava. L’azienda era "decotta" e le tecnologie arcaiche. Un’acquisizione da 10 milioni di euro che nei dieci anni successivi ne è costata 65 milioni. E ora è una realtà all’avanguardia». Poi, l’attenzione si è trasferita in Serbia. «Nel 2006 - prosegue Fantoni - abbiamo acquisito Spik Iverica per 5 milioni, assieme ad altre due aziende. Oggi occupano 300 dipendenti e oltre i pannelli facciamo pellets (per le stufe)». Obiettivo: renderle "avanguardie" per servire i Paesi limitrofi.