Valerio Rosa, l’Unità 5/11/2013, 5 novembre 2013
GENTE, MENO WEB E PIÙ VITA DI STRADA
PRIMA DI LUI, L’UNICO RENATO DELLA CANZONE ITALIANA ERA UN TIPETTO COSÌ CARINO E COSÌ EDUCATO DA NON ACCORGERSI DELLE ATTENZIONI DI MINA. UNO CHE, SE VE LO AVESSE PRESENTATO VOSTRA FIGLIA, VI AVREBBE LASCIATO DORMIRE TRANQUILLI. Poi ne arrivò un altro, molto meno rassicurante, che faceva di testa sua e rivendicava il diritto di vivere, e di vestirsi, come gli pareva. Eppure la stampa di sinistra snobbava questo figlio del popolo, portatore di un messaggio libertario. «E dire che sono nipote di Mario Tronti, e con questo ti ho detto tutto. A casa mia l’Unità entrava tutti i giorni, oltre naturalmente al Corrierino dei Piccoli. Avranno avuto notizie più importanti da dare. Mi è un po’ dispiaciuto, ma alla fine sono sopravvissuto lo stesso. Non ho avuto bisogno dei circuiti ufficiali: quando ho cominciato c’era un’altra concezione di praticantato, nel senso che noi dovevamo necessariamente muoverci in proprio, perché esistevano delle strutture molto borghesi che si reggevano sugli abbonamenti, e quindi su una fascia di spettatori tradizionalisti e poco inclini al nuovo. E così il nostro primo palcoscenico era la strada. Roma si offriva spontaneamente come alternativa all’impossibilità di frequentare l’Eliseo o il Sistina. Poi vennero fuori i piccoli club, che davano spazio a spettacoli di tipo diverso».
Da questo punto di vista. Roma oggi le appare accogliente come allora?
«Noi dobbiamo tenere conto che questa città ha sia il Vaticano sia il governo, due ingombri che privano i romani della possibilità anche psicologia di una circolazione naturale, oggi più di allora. Io vorrei che il popolo si impadronisse dei luoghi pubblici, delle piazze, delle strade, come poteva accadere nella Roma di un tempo. Adesso non è più possibile. Il governo dovrebbe spostare i suoi ministeri e i suoi uffici fuori città, ma ai nostri politici piace avere il balconcino a piazza Navona...».
Molti non escono per strada anche perché socializzano, si fa per dire, davanti al computer...
«Ah, è terribile... ma è un dolore anche vedere un ragazzo davanti a un computer che fa musica da solo. La musica deve essere un travaso, bisogna contaminarsi, scambiarsi informazioni, idee, altrimenti diventa un soliloquio. Per me la collaborazione è fondamentale: mi offre l’opportunità di essere più obiettivo e meno egocentrico. L’importante è che le mie canzoni aderiscano a me. Purtroppo ho sentito dei dischi meravigliosi, in cui però l’artista non c’entrava nulla: mancava la coerenza generale sia nella scelta dei brani sia nella loro realizzazione».
Omogeneità che nel suo ultimo album, «Amo. Capitolo II», si trova in una certa insoddisfazione verso la realtà che stiamo vivendo...
«È una sensazione di distacco, di scoramento e di imbarazzo che tra i giovani mi sembra palpabile. Internet, ad esempio, fa un lavoro molto discutibile: già la scelta di un nickname mi mette i brividi, per l’idea che qualcuno possa spacciarsi per quello che non è e vendere una personalità che non ha. Così andiamo a finire a Jekyll e Hyde. Io sono abituato a suonare ai citofoni, con la gente che mi risponde: aspettami, sto arrivando... Non posso concepire diversamente un rapporto umano».
Uno dei suoi bersagli è la televisione.
«La tv nasce già con una spocchia tutta sua, si fa subire, mentre se vai al cinema scegli cosa vuoi vedere. In tv possono esserci tante cose e spesso sono deleterie per la formazione dei ragazzi, oltre che per il gusto dei telespettatori, trattati come se fossero analfabeti. Io voglio una televisione che mi insegni, che mi faccia fare dei passi avanti, che sia di supporto alla mia fame di conoscere, di sapere e di emozionarmi. Mi mancano i grandi reportages, gli sceneggiati di Bolchi e D’Anza, il maestro Manzi: che fine ha fatto quella televisione? Non è vero che il mezzo è obsoleto; anzi oggi serve più di allora. Negli anni Cinquanta venivamo da due guerre e c’era altro a cui pensare, ma oggi che c’è questo immobilismo la gente cerca qualcuno che la prenda per mano. E invece la tv fa come se non gliene importasse nulla, allo stesso modo dei politici che non spingono il carrello al supermercato e non sanno come la gente. Tutta la televisione dovrebbe essere un servizio pubblico, informarci correttamente, farci sapere in che mondo viviamo, darci il polso della situazione: lasciarci nell’ignoranza permette a tanta gente di fare quello che vuole senza che ce ne accorgiamo».
In mancanza dei media, può pensarci un disco?
«Fare questo è un dovere. L’artista non è uno che mette su un botteghino, fa l’incasso, prende i soldi e scappa. Quando prometti al pubblico di fare il viaggio insieme non puoi esimerti da questa responsabilità, in cui per fortuna non sei solo: per me è una fortuna avere mantenuto intatto il desiderio di parlare ai giovani e di far sentire loro la mia vicinanza, anche se ho tre volte vent’anni».
Non potrebbe farla sentire insegnando? Ha voglia di condividere la sua esperienza?
«Tu sai che ho speso sedici anni della mia vita rincorrendo la grande ipotesi di Fonopoli. Mi ci sono speso senza accettare alcun tipo di compromesso. I tre sindaci che sono transitati negli anni in cui Fonopoli ha cercato di realizzarsi ti diranno che abbiamo detto di no ad una serie di imprenditori e agglomerati politici, proprio per evitare qualsiasi tipo di contaminazione. Noi non potevamo accettare che un palazzinaro costruisse 25000 metri cubi di commerciale contro i 5000 scarsi per le attività artistiche. Se loro ti diranno che la colpa è nostra, preferiamo passare per deficienti che per concussi e ladri. Fonopoli non c’è, ma c’è la dignità di continuare il dialogo con tutti questi ragazzi organizzando seminari e premi letterari, di cui si occupa mia sorella Maria Pia. Abbiamo mantenuto fede alla promessa di non rimanere inoperosi e, visto che siamo in argomento, ti confido che non escludo, appena la mia attività artistica, che si sta già diluendo, me ne offrirà il tempo, di riprendere in mano a mie spese la realizzazione di questo sogno».