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 2013  novembre 05 Martedì calendario

I PM USANO DON SALVATORE PER INCASTRARE BERLUSCONI


Ma questa non è la caduta di Salvatore Ligresti: è la ricaduta. Dai ritratti che i quotidiani gli hanno dedicato in questi giorni, infatti, parrebbe che l’ascesa del costruttore sia stata lineare sino a ieri, salvo precipitare con quest’ultima inchiesta milanese che «punta dritta ad Arcore» come spiegavano ieri Repubblica e il Corriere. Sempre ieri Dagospia ha ricordato perlomeno la familiarità di Ligresti con Enrico Cuccia e quando il costruttore sedeva a pieno titolo nel consiglio d’amministrazione della Cir, la cassaforte finanziaria di Carlo De Benedetti. Ma i più dimenticano anche il clamoroso tonfo di Mani Pulite (1992) o lo liquidano come un trascurabile incidente di percorso, e non - indirettamente, è chiaro - come la dimostrazione che Don Salvatore Ligresti è entrato e uscito dalla patrie galere, negli ultimi vent’anni, a seconda dei bersagli degli inquirenti. Più che un bersaglio, Ligresti pare un tramite per bersagli ancora più grossi: se è vero che l’inchiesta su Ligresti «punta dritta ad Arcore», infatti, ecco la domanda che si sentì rivolgere il primo arrestato di Mani pulite, Mario Chiesa, pochi giorni dopo il suo arresto: «Cosa può dirci dei rapporti tra Craxi e Ligresti?». Ligresti, nel 1992, era passato indenne da un’accurata indagine antimafia ed era stato solleticato da mere condanne per abusi edilizi: nulla più. Ma era nel mirino da tempo. Così, il 15 luglio 1992, i carabinieri si presentarono nei suoi uffici per recapitargli un avviso di garanzia. ma lui non c’era. Informato della cosa, il costruttore si presentò da Di Pietro il mattino dopo: i due si annusarono e si piacquero pure. Il pm gli chiese chi fossero i destinatari di alcune tangenti versate per l’acquisto di terreni, ma Ligresti rispose picche. Poco dopo finì ammanettato per corruzione aggravata e continuata. Leggenda vuole che per tutta la durata della detenzione (ben 142 giorni) il finanziere abbia indossato ogni giorno una camicia bianca pulita. Invece il letto, secondo il quotidiano l’Indipendente, glielo faceva un drogato suo compagno di cella.
Nell’ordine d’arresto non si parlava delle tangenti di cui gli avevano chiesto nell’interrogatorio: Ligresti venne ufficialmente incarcerato per accuse che riguardavano la Metropolitana milanese. Allora, come ora, si usava così. Gli obiettivi erano altri. La Guardia di Finanza perquisì tutte le società dove lui ricopriva cariche sociali e tra queste c’era anche Mediobanca, anche se il costruttore non disponeva neppure di una scrivania. L’episodio, secondo i sottoboschi giornalistici, mandò in bestia Enrico Cuccia e Cesare Romiti.
Nel primo interrogatorio gli chiesero genericamente di «fare i nomi» e di raccontare all’occorrenza tutto quel che sapeva. Lui rifiutò e tornò dentro. Sul suo Gruppo - trentamila dipendenti, decine di società anche quotate in Borsa - si scatenò una spaventosa speculazione al ribasso, allora come ora. Nelle redazioni economiche dei quotidiani l’ordine di scuderia era già partito: galloni di benzina sul fuoco. La Repubblica, testata solitamente specializzata in questo genere di cose, venne superata di slancio dal Corriere della Sera: «Gli esperti di Piazza Affari », si leggeva, «ritengono che Ligresti, una volta tornato alla guida del suo gruppo, non possa evitare di cedere la Grassetto Costruzioni e di uscire così dal settore dei grandi lavori». Ancora: «Molti banchieri e imprenditori... sono stati abbastanza concordi: Don Salvatore, quando uscirà dal carcere, per il bene del suo stesso gruppo, dovrebbe defilarsi ».
Non andò per niente così. Ma intanto, grazie alla carcerazione e al baccano giornalistico, i miliardi sfumarono a grappoli. Nel libro «Le mani pulite» di Enrico Nascimbeni e Andrea Pamparana (Mondadori) si racconta un episodio che parrebbe scritto da Edmondo De Amicis: «Di Pietro decide di render visita a Salvatore Ligresti... Il pm saluta, i due si scambiano convenevoli formali (l’avvocato non è stato invitato, ndr) e poi piano piano, scatta qualcosa. Di Pietro vive giorni di grande tensione... In famiglia c’è tensione tra marito e moglie, il figlio di primo letto di Di Pietro, Cristiano, diciannove anni, ha pure avuto un piccolo collasso. Di Pietro racconta, si sfoga. A un certo punto si commuove e piange. Un pianto liberatorio, da uomo che soffre. L’ingegnere si alza, abbraccia il giudice e lo conforta: “Co - raggio, coraggio...”». Tra i due, a leggere il libro, non si capisce chi sia in galera.
In un secondo interrogatorio i pm gli contestarono finalmente le vicende della Metropolitana, quelle per cui l’ave - vano ammanettato. Lui ammise gli addebiti: aveva partecipato - disse - alla colletta per pagare tangenti sulla Linea 3. Aveva «parlato», insomma. I suoi legali, Ennio Amodio e Raffaele Della Valle, prepararono l’istanza di scarcerazione, ma il gip la respinse come al solito: permaneva pericolo d’inquinamento delle prove, pericolosità sociale e tutto il resto. Anche il Tribunale della libertà, il 3 agosto, respinse la richiesta: e nella sentenza si sosteneva che la famigerata pericolosità sociale si sarebbe protratta sino alla conclusione dell’indagine preliminare. Da buttare la chiave.
Così i suoi legali, il 4 agosto, convocarono una conferenza stampa che forse dovrebbe entrare in un compendio di storia del giornalismo. Della Valle e Amodio, penalisti di fama, vennero raggirati come citrulli. Fecero dichiarazioni gravi, parlarono di «ordini di custodia emessi in carenza dei presupposti legali previsti», dissero che «ci sono persone che hanno ammesso di aver effettuato il pagamento di tangenti, mentre non era vero, soltanto per evitare la carcerazione ». E così via per un’ora secca. Ma, al termine dell’incontro, un cronista chiese: «Ligresti come ha preso la notizia della sentenza sfavorevole?». E i penalisti, tra il serio e il faceto: «Era pallido ma forte. In quanto a fermezza d’animo, ricorda Papa Wojtila». Un’uscita forse poco felice, ma i due legali non avrebbero certo immaginato che una mezza battuta potesse divenire il cuore della loro conferenza stampa. Titolò il giorno dopo L’indipendente: «Ligresti sta male, è pallido come il papa». Esordì il Corriere della Sera: «Il caldo, si sa, può giocare scherzi terribili anche agli avvocati più esperti».
Nel tempo cambiarono solo le condizioni di salute del costruttore. Da tempo necessitava di un’operazione alla prostata e cominciò una trattativa che si concluse con il ricovero nella clinica Città di Milano (che era sua) ma sotto stretto piantonamento. Sinché la sera del 15 novembre, in clinica, Ligresti era particolarmente di buon umore: a mezzanotte sarebbero scaduti i termini della carcerazione preventiva e una volta ristabilito avrebbe potuto uscire. Alla porta comparve un capitano dei Carabinieri con in mano una busta: ma non era la scarcerazione, era un nuovo ordine d’arresto per un modesto «abuso d’ufficio» dedotto da una sua dichiarazione vecchia di un mese. Un pretesto, certo. Morale: Ligresti ebbe due collassi cardiaci e il giorno dopo l’avvocato Della Valle lasciò l’incarico: «Non sono un avvocato per tutte le stagioni».
Di Pietro e Colombo raccolsero le dichiarazioni che Ligresti fu disposto a mettere a verbale in cambio della libertà. Ammise di aver finanziato lautamente il Psi e la Dc. Chiamò in causa, pur indirettamente, Bettino Craxi: obiettivo raggiunto.
Venne scarcerato il 25 novembre. Ma tornerà in galera il 13 luglio 1993 per una tangente pagata dalla Sai. Se l’era dimenticata. Ma fu un lampo: entrò, parlò e uscì subito. Quando lascerà la presidenza della Grassetto, il 21 giugno 1995, disse: «Hanno distrutto l’industria delle costruzioni, uno dei settori trainanti dell’economia italiana». Ma Ligresti, a riciclarsi, si dimostrerà abilissimo. Cambieranno i politici, e lui cambierà interlocutori. Il problema è che, per la magistratura, cambieranno anche i bersagli. A metà strada, sempre lui.