Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  novembre 05 Martedì calendario

L’ESPERIMENTO FALLITO DEGLI ISLAMISTI AL POTERE


Il presidente destituito Morsi e i principali esponenti di Libertà e Giustizia, il partito dei Fratelli musulmani, vanno a processo in Egitto, proprio mentre in Tunisia giunge alla fine l’esperienza al governo degli islamisti di Ennahda. Si chiude così in Nord Africa il ciclo dell’Islam politico di filiera dei Fratelli musulmani, che solo due anni fa sembrava destinato a durare. Infatti, per governare società investite dai processi della globalizzazione non basta l’antico slogan della Fratellanza: «Dio è il nostro programma, il Corano la nostra costituzione». Così come non basta tradurre categorie religiose in categorie della politica: la shura, la consultazione declinata come democrazia, e l’ijma, il consenso della comunità in materia di questioni teologiche e giuridiche non possono declinarsi in una sorta di centralismo democratico in salsa islamista. La realtà è che, nonostante i tentativi di adattamento, la cultura politica dei Fratelli si è mostrata inadeguata per dirigere società complesse. Tanto più in un quadro pluralistico. Persino il pragmatismo adottato talvolta da quelle formazioni è parso, più che un indicatore di mutamento, mero occasionalismo: disancorato com’era da ogni riferimento a una cultura politica che legittimasse le scelte che lo avevano indotto.
L’errore di Ennahda e di Libertà e Giustizia è non aver compreso la natura del consenso ricevuto. Non tutti quelli che li avevano votati volevano una società islamica. Scegliendo i partiti legati alla Fratellanza, l’elettorato non di appartenenza aveva premiato le forze che con più coerenza si erano opposte ai regimi autoritari. Una volta caduti quei regimi, il consenso doveva essere riguadagnato nell’azione di governo. Il responso popolare è stato, invece, interpretato come mandato a realizzare un progetto di lunga durata, ipotecato dall’ambiguità, mai sciolta, tra Stato religioso e Stato islamico. Pagato il pegno dell’affidabilità sistemica internazionale, i partiti di filiera della Fratellanza musulmana si sono così irrigiditi sull’islamizzazione dei costumi. Scelta che, in presenza di una pessima gestione della pesante crisi economica, ha innescato la reazione che ha condotto alla sconfitta. È il tracollo del consenso che ha permesso il golpe in Egitto e le dimissioni “concordate” in Tunisia.
L’altra ambiguità decisiva ha riguardato il rapporto con le forze salafite. In nome del principio “nessun nemico nel campo dell’Islam politico”, i partiti della Fratellanza volevano evitare che forze islamiste collocate all’opposizione lucrassero rendite di posizione mentre essi si logoravano nell’azione di governo. Opzione sfociata in Egitto nell’alleanza costituente con i salafiti: assai mal ripagata, visto il ruolo avuto da Al Nour, principale partito salafita, nella deposizione di Morsi. In Tunisia questo atteggiamento si è tradotto nella tolleranza istituzionale verso un salafismo aggressivo che ha avuto come bersaglio donne, intellettuali e docenti universitari, ed è sfociato nell’assassinio di due leader dell’opposizione laica. Quando il consenso è evaporato, le forze — militari, politiche, sociali — ostili alla Fratellanza hanno presentato il conto. In Egitto saldando cortei e cingoli, in Tunisia mobilitazione e resistenza degli apparati.
Ora i Fratelli musulmani sono a un bivio. In Egitto sono fuori legge e la loro organizzazione è decapitata. Il grosso del movimento punta a ricostituirla, poi si vedrà. I giovani quadri invece sono convinti che la disfatta obblighi ad affrontare il nodo di una plausibile cultura di governo. Su posizioni opposte, si fa strada anche una fazione persuasa che, dopo l’esperienza Morsi, attraverso il consenso elettorale non sia possibile costituire né uno Stato islamico, né uno Stato religioso. E che riposizionarsi sulle antiche certezze consenta, invece, di contenere almeno l’insidiosa concorrenza salafita.
Anche in Tunisia l’uscita dal governo, con le dimissioni promesse dal premier islamista Ali Larayedh, costringe Ennahda a scegliere: percorrere la via indicata da alcune posizioni di Ghannouchi, il co-fondatore e leader intellettuale di Ennahda, costruendo un autentico partito conservatore su base confessionale, o imboccare la scorciatoia del ritorno alla purezza ideologica che, però, condanna all’impotenza. Il tutto mentre il Paese è scosso dal terrorismo qaedista che attacca l’industria turistica e un monumento a Bourghiba, ritenuti simboli della globalizzazione e della laicità dello Stato. Il duplice fallimento dell’Islam politico neotradizionalista impone una svolta e non lascia spazio a una terza via.