Sergio Romano, Corriere della Sera 4/11/2013, 4 novembre 2013
LA POLITICA ESTERA TURCA COLPITA DALLE RIVOLTE ARABE
Dove sta andando la Turchia? La domanda appare in qualche modo inevitabile se si guarda
a quanto accade. Questo
Paese, uno dei pilastri della Nato, ha infatti scelto un’azienda cinese per la fornitura di un importante sistema missilistico di difesa aerea. Quasi un sacrilegio, prontamente criticato dagli Stati Uniti e dalla
stessa Alleanza atlantica per le conseguenze pratiche che tale decisione comporterà. In realtà, la mossa rappresenta l’ennesimo segnale di una qualche intraprendenza di Ankara sul piano internazionale e, al contempo, di un certo allontanamento dall’Occidente, tanto che, per esempio, l’adesione all’Ue appare sempre più remota. Se a ciò si aggiunge la crescente islamizzazione sul piano interno, accompagnata dal ridimensionamento di quei militari custodi della laicità voluta dal padre della Turchia Atatürk, il quadro si può definire completo e un (poco) preoccupante.
Giovanni Martinelli
Caro Martinelli,
U na singola fornitura militare non è necessariamente un segnale decisivo. Il vero problema mi sembra essere piuttosto la crisi della politica estera turca. Quando il partito AK (Giustizia e sviluppo) conquistò il potere nel 2007, il suo leader, Cerep Tayyip Erdogan, volle al ministero degli Esteri Ahmet Davotoglu, studioso di politica internazionale, uomo di buona cultura e di chiare intuizioni. Sotto la sua guida, la diplomazia turca avrebbe approfittato della fine della Guerra fredda e della scomparsa dell’Urss per garantire a se stessa un più importante ruolo regionale.
Si parlò allora, con una certa esagerazione, di una politica neoottomana. Ma la Turchia voleva soprattutto esercitare una leadership culturale, nel senso più largo della parola. Avrebbe cercato di avere buoni rapporti con tutti gli Stati arabo-musulmani della regione e persino, nei limiti del possibile, con la Repubblica d’Armenia. Avrebbe dimostrato a tutti i suoi vicini che l’osservanza dell’Islam non era incompatibile con il progresso civile ed economico. Si sarebbe imposta come modello politico e potenza economica. Avrebbe anche continuato a desiderare l’adesione all’Unione Europea per conseguire due vantaggi: l’appartenenza a una grande e moderna area economica e sociale, la possibilità di attribuire alle insistenze dell’Ue quel ridimensionamento della casta militare turca, nella gestione dello Stato, che fu l’obiettivo più caro a Erdogan sin dall’inizio del suo primo governo, ma cominciò a delinearsi con maggiore chiarezza soltanto negli anni seguenti. Più tardi, gli screzi con Israele incrinarono una vecchia solidarietà, ma rafforzarono l’immagine della Turchia agli occhi del mondo musulmano.
Quando alcuni Paesi europei (Francia, Austria, Paesi Bassi, Germania) presero posizione contro l’ingresso di Ankara nell’Unione, i negoziati di Bruxelles vennero di fatto interrotti. Ma il castello della politica estera turca cominciò a traballare soltanto dopo le rivolte arabe. Erdogan e Davotoglu cercarono di pilotare il declino dei tiranni e l’avvento della democrazia, ma si scontrarono con difficoltà insormontabili e, in Siria, con la forte resistenza di Bashar Al Assad. Da quel momento Erdogan, forse per ragioni prevalentemente caratteriali, finì dentro la mischia e il suo governo divenne obiettivamente il protettore della Fratellanza musulmana in Egitto, il fornitore di armi e altri servizi ad alcune delle formazioni sunnite combattenti in Siria, l’oggettivo alleato dell’Arabia Saudita e del Qatar. Non era questa la politica che Davotoglu voleva perseguire per il suo Paese. E non è questo il Paese che l’Unione Europea desidera avere tra i suoi membri.
Come spiegare allora il fatto che negli scorsi giorni sia stato deciso di riprendere il negoziato interrotto per l’adesione di Ankara all’Ue? A Bruxelles non si è perduta la speranza di trattenere la Turchia nel mondo occidentale. Ad Ankara si è deciso che l’ancoraggio all’Europa, nel momento in cui il Paese sta perdendo pezzi di politica estera, non può essere buttato via.