Gianni Mura, la Repubblica 4/11/2013, 4 novembre 2013
70 ANNI DI BONIMBA
MANTOVA La foto dai toni seppia fa il giro del tavolo sotto il pergolato, fuori dalla trattoria. E’ cominciato tutto lì e non è ancora finito. Gli Invincibili del Sant’Egidio, anno 1957. Due anni (1956/58) senza mai perdere una partita e la prima sconfitta arrivata con la monetina del sorteggio. “Io sono il secondo in basso da destra. Un ragnetto”, dice Roberto Boninsegna, classe 1943. “Tant’è che giocavi mezzala, il bomber ero io”, dice Adalberto Scemma, secondo da sinistra in alto, poi diventato giornalista, e pure bravo. “Vero, ma eri tutto velocità, tecnica poca”, dice Boninsegna. Ed è curioso sentir parlare di tecnica uno che è passato alla storia (del calcio) come simbolo di forza e coraggio, sturm und drang, un satanasso. Però ne aveva, e tanta, visto che segnava in tutti i modi, quasi sempre di potenza, e da tutte le posizioni. E un po’ di merito ce l’ha Massimo Paccini, l’allenatore di allora, in posa sulla destra come un maestro con la scolaresca. “Brava persona, bravo tecnico, ha vinto un titolo nazionale sulla panchina del Guastalla, con Gene Gnocchi in campo, ha curato le giovanili del Mantova. E’ morto un mese fa, prima di morire s’è fatto portare sul campo dell’Anconetta, dove giocavamo. Ai funerali c’eravamo tutti noi degli Invincibili”.
Il capitano di quella squadra, Franco Salardi detto Cina, è il titolare della trattoria, adesso sta tornando con una bottiglia di Lambrusco bello scuro e una sleppa di Grana. Boninsegna indica la foto: “Sembriamo più giovani, no? E’ perché c’era meno da mangiare. Ecco, questo biondino è Scardeoni detto Nacka, venne con me alle giovanili dell’Inter, poi al Genoa lo allenò Sarosi, ma lui aveva in testa l’arte e adesso fa l’antiquario a Lugano. Pedrazzoli è diventato pittore, ma anche assessore alla cultura. Alfano, direttore dell’Inps. Fornasari funzionario della Belleli che ha ristrutturato San Siro”.
A un certo punto penso che siamo indietro nel tempo, o forse fuori dal tempo. Quando mi ricapiterà di fare un’intervista sotto un pergolato, senza che l’intervistato guardi l’orologio ogni cinque minuti? E con un intervistato che parla senza reticenze? È qui che capisco quanto forte sia il legame tra compagni di squadra, anche ragazzini, che si separano ma non si perdono. O dovrei dire compagni e basta, compagno centravanti?
“Lascia stare, la definizione l’hanno coniata per Sollier. Io non ho mai avuto problemi, nemmeno con Agnelli e Boniperti che certamente non la pensavano allo stesso modo. Non facevo comizi, ma non ho mai nascosto da che parte stavo. E da che parte potevo stare? Mio padre era nel consiglio di fabbrica, alla Burgo. Bastava che facesse un fischio e si fermava il reparto. Aveva perso tre dita sotto una pressa, così in guerra non c’era andato. Ma in fabbrica avevano un bel po’ d’armi nascoste. Tutte cose che ho saputo da altri. Era un omone, mio padre. Parlava poco ma lasciava il segno. Mia madre era più estroversa. E tifava Mantova anche con me in pancia. Al cancello dello stadio l’hanno bloccata che era all’ottavo mese, preoccupati. Elsa, non vorrai mica farlo qui? Te sta tranquillo, disse lei, mi sono portata appresso la levatrice “.
Tutto questo in dialetto mantovano, mi spiace non saperlo trascrivere. Avanti. “Non ho mai avuto paura nemmeno da bambino, nemmeno del buio. Non ero mai solo. Vivevamo in due stanze in corso Garibaldi, vicino all’ex macello, dove adesso c’è la biblioteca comunale. E i cosiddetti servizi, fuori in cortile. Vedevo mio padre uscire in bici la mattina presto e rientrare distrutto, e tossire, tossire. La fabbrica ti dava da vivere e ti accorciava la vita. Non usavano le mascherine, un litro di latte gratis al giorno e via andare. E’ morto a 61 anni. Fino a che non mi sono sposato tutti i guadagni li davo in casa. Così prima s’è comprato un Vespino, almeno poteva tornare a casa nella pausa e mangiare qualcosa di caldo, poi una macchina. E a mia madre ho preso un negozio di merceria”.
Alza un braccio: “Vorrei chiarire una cosa. Tutti hanno scritto che festeggerò i 70 in fabbrica. Non è vero. Lo passerò in famiglia, con mia moglie Ilde che ho sposato 45 anni fa, aggiungine sette di fidanzamento, posso dire che è la donna giusta di tutta una vita. E i miei figli: Gianmarco avvocato, Elisabetta psicologa. E Giovanni, il nipotino. Per questa storia della fabbrica mi hanno cercato anche dei giornali e delle radio di Roma. Ci vado il 5 per appoggiare il presidio dei 180 lavoratori che resistono da febbraio e forse c’è ancora un filo di speranza che le cose si aggiustino. Ma proprio un filo. Nella sala mensa della Burgo c’è un grande crocifisso e ai lati due quadri con falce e martello. Ecco, mio padre non mi ha indottrinato né mi ha mai probito di frequentare i preti. Gli Invincibili era la squadra dell’oratorio. Una volta son tornato a casa e gli ho chiesto: papà, ma è vero che voi mangiate i bambini? E’ una balla, ha detto, e può avertela raccontata solo un prete, bisognerà che vada a parlarci. Bene, fermiamoci qui, tanto poi è chiaro che Berlusconi è stato la rovina dell’Italia e che dalla sinistra, con Bertinotti e D’Alema, gli sono arrivati buoni assist”.
Ho una curiosità, dopo tante pagine di taccuino riempite. Nel calcio ci sono biografie di cani e porci. Perché lui no? “Me l’hanno proposto e c’era anche un discreto ingaggio. Ma ho detto no grazie, perché se avessi raccontato tutta la verità avrei sputtanato un sacco di gente e se non l’avessi raccontata mi sarei sputtanato io. Tanto valeva lasciar perdere”. Il resto è sintesi.
IL CAMBIAMENTO. “Inizio da mezzala, divento seconda punta. E la prima punta, il povero Taccola a Prato, Bercellino a Potenza, è regolarmente capocannoniere del torneo. A Varese segno poco, prima punta è Combin. A Cagliari segno un po’ di più, anche se c’è Riva. Un giorno Scopigno mi dice: siamo pochi e gli unici ad avere mercato siete tu e Gigi. Lui non si vuole muovere, e tu? Io qui ci sto benone, ma se mi date via accetto solo l’Inter. Affare fatto. Arrivano in cambio Domenghini, Gori e Poli più ottocento milioni, mica poco. E senza di me il Cagliari vince il suo primo scudetto. Io il primo con l’Inter, l’anno dopo, quando mi ero trasformato in prima punta. Ragionamento: se fare i gol è così importante, tanto vale che li faccia io. Sono diventato più egoista, più cattivo, più finalizzatore. Anche perché, siamo onesti, con intorno gente come Suarez, Corso e Mazzola era una pacchia”.
GLI AVVERSARI: “Il più bravo e corretto di tutti, Guarneri. I più rognosi, nell’ordine: Spanio, Rosato, Galdiolo, Morini. Di quelli che ho incontrato, troppo facile dire Pelé o Gerson, Rivelino o Jairzinho. Sto in Europa: Overath in cima, poi alla pari Beckenbauer e Crujiff. Ricordo che non c’erano tante moviole e tante regole: il fallo da ultimo uomo, per esempio. E avevi difese a uomo, stopper più libero. Prima era il difensore a stare attaccato all’attaccante, adesso con le difese in linea l’attaccante furbo va a farsi marcare dal difensore più scarso”.
GLI ALLENATORI: “Se oggi uno come Guardiola mi dicesse che il suo centravanti è lo spazio io gli direi: no, il centravanti sono io, e cambio squadra. Ne voglio ricordare tre. Scopigno era pigro ma intelligentissimo, non sbagliava mai un cambio, anche perché a Cagliari eravamo pochi, contati, una riserva per settore e quattro della Primavera. Senti questa: d’accordo col Cina, il capitano degli Invincibili, sciambola. Carnevale di Venezia, con le morose. Avevo prenotato su un volo alle 7 per Cagliari. Che tarda. Arrivo, salto su un taxi e gattono dentro all’Amsicora, confidando sul fatto che Scopigno non amava alzarsi presto. E invece lo trovo piantato davanti allo spogliatoio. E mi fa: “Capisco lo smoking, ma almeno potevi toglierti i coriandoli dalla testa”. Herrera è stato un grande. Tatticamente. Poi aveva dei difetti, ma tatticamente meritava che lo chiamassero Mago. E poi Trapattoni, grande professionista, il primo all’allenamento, l’ultimo a uscire. A me il sabato piaceva calciare una trentina di rigori, mi aveva insegnato Meazza. e poi tirare al volo sui cross. Pioveva, un giorno, e ne ho tirato uno altissimo. “Bobo, vuoi che ti dica dove hai sbagliato?”. “Scusa Trap, ma tu quanti gol hai fatto da professonista?”. “Sei o sette”. “Io 160, non mi menare il torrone”. Mi ha fatto dare 150mila lire di multa, ma poi amici come prima. Anche se quand’ero alla Juve non ha mai azzeccato un cambio”.
RIVA. “Come fratelli, abbiamo diviso per due anni la stessa camera, poi mi sono sposato ma siamo rimasti amici. In campo ci mandavamo spesso a quel paese, questione di temperamento. Un giorno giochiamo in Mitropa a Skoplje e c’è invasione di campo, noi due siamo i più lontani dallo spogliatoio. Nenè fa in tempo a infilare la porta e chiude a chiave, e noi fuori a urlare “apri, deficiente”. E intanto arrivavano i tifosi, sembrava un film con Bud Spencer e Terence Hill. Ne abbiamo stesi un sacco, ma ne abbiamo anche prese. Ma la paura più grande non è stata lì, ma quando Gigi m’ha proposto un giretto in macchina verso Villasimius. Aveva un’Alfa Quadrifoglio truccata. Non c’erano
le cinture. Curve su due ruote. Il giorno dopo ho fatto l’assicurazione sulla vita”.
I GOL:”Il più bello al Foggia, in rovesciata. I più importanti in Messico: l’1-0 alla Germania, ma sono anche fiero dell’assist a Rivera per il 4-3, e il temporaneo 1-1 col Brasile.
Nell’intervallo eravamo convinti di farcela, bastava che Valcareggi mettesse dentro Rivera al posto di Domenghini che non stava più in piedi. O meglio, che Rivera giocasse dall’inizio. Abbiamo regalato al Brasile il Pallone d’oro nella partita più adatta a lui. E senza staffetta. Mi piacerebbe rigiocarla con Rivera, quella finale”.
LA PANCHINA: “Forse è stato un errrore rimanere nove anni fuori dal calcio, ma volevo godermi la famiglia. Poi ho fatto per 13 anni il ct dell’Under 21 di C. Meglio che fare l’allenatore, perché da selezionatore se un giocatore rompe i coglioni non lo convochi più, mentre da allenatore te lo devi tenere almeno un anno. Ho scovato gente come Toldo, Abbiati, Amelia, Fortunato, Barzagli, Iuliano, Bertotto, Di Biagio, Iaquinta, Montella e Toni, che era riserva nel Fiorenzuola e che chiamavo sbrindellone caracollante. Mi aspettavo qualcosa di più dalla federazione ma non mi lamento, so di essere stato un privilegiato”
DUE CHICCHE (Brera e il Monatto). “Bonimba lo devo a Brera. A San Siro gli ho chiesto perché. Perché hai il culo basso e quando corri mi ricordi Bagonghi, nano da circo. Ho incassato guardandolo come per fargli capire che coi miei 176 centimetri ero più alto di lui. Poi Brera scrisse sul Giorno, più o meno: è inutile che Bonimba mi guardi dall’alto in basso, nano l’ho battezzato e nano resta. Un nano gigante, però. Quanto al monatto, un giorno mi telefona Facchetti. Bobo, c’è il regista Salvatore Nocita, un interista vero, che girerà a Mantova un pezzo dei Promessi sposi, sceneggiato tv, e ha pensato a te. Che parte dovrei fare, Giacinto? Il monatto, quello che carica gli appestati sul carretto. E perché non lo fai tu? Perché io sono alto, bello e biondo. Così ho fatto il monatto, senza pensare di essere basso, brutto e moro. E mi sono anche divertito”.