Alessandro Barbero, La Stampa 4/11/2013, 4 novembre 2013
QUANDO ANNIBALE MANGIAVA ANANAS IN AMERICA
E’ possibile che gli antichi avessero scoperto l’America, e che poi se la siano dimenticata? È quanto sostiene Lucio Russo in un libro che il passaparola dei lettori sta trasformando in un caso editoriale; anche se molti librai non l’hanno mai sentito nominare, forse perché L’America dimenticata è uscito da un editore specialistico come Mondadori Università.
Russo, che è storico della scienza e ordinario di calcolo delle probabilità, parte con un obiettivo polemico dichiarato. Vuol dimostrare che non è vero che le civiltà umane seguono ineluttabilmente tutte uno stesso percorso, inventando, poniamo, il fuoco e poi la scrittura e poi la ruota, e così via fino a inventare il liberalismo e la democrazia. Secondo Russo, se tutte queste innovazioni accomunano le diverse civiltà umane è perché qualcuno le ha inventate per primo, e poi si sono diffuse per contatto e imitazione. Lo scopo è nobile: combattere il determinismo storico, che Russo assimila allo screditato determinismo biologico; evitare di impigrirci nella certezza che esista un progresso necessario, ridare «all’umanità attuale l’enorme responsabilità di scegliere liberamente gli sviluppi futuri».
Si potrebbe obiettare che Russo si inventa un avversario di comodo: il determinismo storico infatti è morto e sepolto. Nessuno storico oggi si sogna di affermare che tutte le civiltà si evolvono secondo un percorso prestabilito e ineluttabile. Anche chi ritiene, poniamo, che i cinesi abbiano inventato la scrittura per conto proprio anziché copiarla dai fenici non è affatto per questo un fanatico determinista, fiducioso in «rigide leggi universali».
Russo teme invece che ammettendo eccezioni si apra la porta al determinismo. E dunque bisogna sostenere a oltranza che mai, in nessun caso, civiltà diverse sono potute arrivare per conto proprio agli stessi risultati: dove appaiono esiti simili c’è per forza contatto. Sennonché questa visione diffusionista urta in un ostacolo: le civiltà precolombiane in America si sono sviluppate, a quanto abbiamo sempre creduto, senza alcun contatto col vecchio mondo. Russo, di conseguenza, ha deciso di dimostrare che non è così, e che quei contatti ci sono stati.
Il cuore del suo ragionamento è un capitolo storico-matematico dedicato alla misurazione del mondo da parte dei geografi antichi. Nel III secolo a. C. Eratostene aveva calcolato con straordinaria precisione la circonferenza della Terra. In età romana, Tolomeo diede invece una misura sbagliata, rimpicciolendo il globo. Quale può essere la ragione di questo errore? Secondo la geografia antica, le terre abitate, dall’estremo Occidente all’estremo Oriente, occupano esattamente 180° di longitudine, ossia metà della circonferenza terrestre. Ma Tolomeo colloca l’estremo Occidente, ovvero il meridiano zero, alle Canarie: la circonferenza della Terra secondo lui è il doppio della distanza che separa le Canarie dalla capitale della Cina - ed è troppo poco, come appare evidente a noi oggi. L’ipotesi di Russo è che ai tempi di Eratostene il punto di partenza dell’ecumene conosciuta non fosse alle Canarie, ma molto più a Occidente, alle Antille: collocando lì il meridiano zero, tutte le misure diventano giuste. Il ragionamento è affascinante e può darsi benissimo che Russo abbia ragione a dedurne che molto prima di Tolomeo i navigatori antichi, forse cartaginesi, si erano spinti fino alle Antille.
Tutto questo però non significa quello che l’autore ne deduce, e cioè che quei navigatori si erano spinti ancora più in là, si erano resi conto che lì c’era un intero continente, e ne avevano introdotto la conoscenza nel mondo antico. Perché a questo punto si pone il problema di spiegare come mai una conoscenza così capitale sarebbe stata a un certo punto dimenticata. Il capitolo più debole del libro è quello in cui Russo inventa un «tracollo culturale» che avrebbe travolto il mondo mediterraneo con la distruzione di Cartagine e la conquista romana del mondo ellenistico, fra chiusure di biblioteche, esodi di intellettuali e perdita di libri. Questo fenomeno, osserva Russo con stupore, è stato «gravemente sottovalutato» e addirittura «stranamente ignorato» dalla storiografia, cosa che in verità avrebbe dovuto suggerirgli qualche dubbio: perché quella «tragedia» non si è mai verificata, almeno nei termini catastrofici ipotizzati dall’autore.
E poi c’è la faccenda dell’ananas. Sono almeno tre le opere d’arte romane, fra statuette e mosaici pompeiani, in cui è raffigurato quello che sembrerebbe proprio un ananas. Ma questo frutto, ci dicono i botanici, è originario del Sud America. Ecco dunque una prova dei contatti che esistevano nell’antichità fra il Mediterraneo e il continente americano, prima del collasso del II secolo a. C. Sennonché la statuetta del ragazzo con l’ananas è del II secolo d. C., tre secoli dopo che il collasso culturale aveva cancellato il ricordo dei viaggi verso le Antille. Russo a un certo punto si è reso conto di questa difficoltà, e ha cercato di risolverla correggendo la sua tesi: le navigazioni sistematiche con l’America, dichiara, non si sono affatto interrotte col collasso culturale, ma sono continuate ancora per secoli; solo, le navi che coprivano quella rotta lo facevano «all’insaputa dei vertici dello Stato romano», nonché di tutti i dotti e i geografi. Le navi, insomma, salpavano per le rotte americane e tornavano cariche di prodotti, i consumatori mangiavano l’ananas, solo il governo e gli scienziati non ne sapevano nulla.
Questa idea dei viaggi proseguiti all’insaputa delle autorità è suggerita in vari punti del libro, tentando di non farne cogliere al lettore l’enormità, ma l’incongruenza è così grave da rimettere in discussione la tesi di fondo. Il che non significa, s’intende, che i navigatori antichi non abbiano potuto davvero raggiungere le Antille, fornendo agli scienziati l’informazione che laggiù nell’Oceano esistevano isole molto più lontane delle Canarie; ma questo non significa ancora che avessero scoperto l’America.