Luca Bianchin, La Gazzetta dello Sport 5/11/2013, 5 novembre 2013
PIU’ CHE UN GIOCO È UN GIOCATTOLO DEGLI EMIRI
Carlos Alberto Parreira a inizio anni Novanta ha vinto un Mondiale. Purtroppo per gli sceicchi e per tutti i grattacieli di Dubai, è successo nel 1994 con il Brasile e non nel 1990 con gli Emirati Arabi. Sull’album Panini erano presentati come UAE, all’inglese, avevano dei gran baffi, le magliette bianche e un girone mica male: la grande Colombia di Valderrama, la Jugoslavia di Stojkovic e la Germania Ovest poi campione del mondo. Tre squadre ingiocabili. Ovviamente gli Emirati persero sempre e non avviarono un processo di crescita cominciato solo negli ultimi anni. Fino al 2008 le squadre del campionato locale erano semi-dilettantistiche e i calciatori lavoravano part-time, magari per l’esercito o la polizia. Poi ci si è organizzati e la Premier League è diventata un discreto campionatino da 14 squadre, con i club dei sette emirati che compongono il Paese. Abu Dhabi è il principale, Dubai segue a ruota.
A scuola da Cannavaro
L’Al Ahli, orgoglio di Dubai, è primo a punteggio pieno ed è uno dei club storici, anche se nessuno ha vinto come l’Al Ain. Rispetto all’Europa, però, qui «country comes first», «il bene del Paese viene prima», come dice Roy Aitken, che in quel Mondiale ’90 era capitano della Scozia e ora fa il direttore sportivo all’Al Ahli. Gli Emirati hanno interesse ad alzare il livello dei giocatori locali, allora limitano le importazioni di talento e curano i settori giovanili. L’Al Ahli di Cannavaro ha 10 squadre, dall’Under 8 all’Under 19, ognuna organizzata all’europea con allenatore, staff e un supervisore come Carlos Carvalhal, ex allenatore di Sporting Lisbona, Braga e Besiktas. Tutti i più grandi giocano 4-3-3 come al Barça e, se non si fosse capito, il budget è altino. Gli sceicchi finanziano le squadre del loro emirato e più di metà dei fondi per affrontare una stagione arriva da lì, dal governo centrale. Il resto sono sponsor, donazioni e introiti vari. Le linee-guida non sono copiate dal manuale dell’Udinese, dove si crescono i giocatori per venderli: «Ahmed Khalil, il nostro miglior giovane attaccante, ci è stato già chiesto da due squadre francesi - dice Aitken -. Però i proprietari qui chiedono qualche milione e i migliori non si muovono».
Basta esterofilia
Nella storia, infatti, sono pochissimi i giocatori degli Emirati che hanno giocato all’estero. Su tutti, forse, Hamdan Al-Kamali, passato al Lione nel 2012. L’Al Ahli, con un certo disinteresse, ha rifiutato proposte di partnership con club europei ma la chiusura non sempre aiuta la nazionale. Gli Emirati hanno vinto le ultime 15 partite ma, nelle qualificazioni a Brasile 2014, hanno eliminato l’India per poi mettere insieme solo tre punti nel gironcino con Corea del Sud, Libano e Kuwait. Da un paio d’anni in panchina c’è un c.t. locale, mentre in passato è stata tentata la via estera. Nel 1992 comandava Lobanovsky, nel 2000 Henri Michel, poi Hodgson, Advocaat, Bruno Metsu e Srecko Katanec, rimasto in carica per un paio d’anni, ampiamente oltre la media. I risultati, appena discreti. Dopo il 1990 gli Emirati non sono più finiti sugli album del Mondiale, hanno giocato una sola finale di Coppa d’Asia e vinto appena due trofei: la Kirin Cup 2005, competizione a tre squadre (!) con Peru e Giappone (!!), e la Coppa delle Nazioni del Golfo nel 2007 e nel 2013. Scommettere su un futuro di alto livello da un lato è sensato, dall’altro coraggioso, perché gli Emirati per alcuni aspetti restano un mondo a parte. Non si fa reclutamento, ad esempio, perché le squadre locali si conoscono e dall’estero non si può acquistare. Poi ci si allena solo di sera, quando la temperatura scende sotto i 30, e il campionato conserva regole anni Novanta. In rosa si possono avere massimo quattro stranieri, ma uno deve avere passaporto asiatico e nessuno può fare il portiere. Il protezionismo tutela soprattutto i guanti made in the Emirates.