Luca Bianchin, La Gazzetta dello Sport 5/11/2013, 5 novembre 2013
ZENGA LO SCEICCO
Nel 2009 Walter Zenga faceva progetti di vita: «A me piace stare a Miami, mia moglie Raluca preferisce Dubai». In schedina, 2 fisso. Coach Z vive stabilmente a Dubai e da qualche giorno allena ad Abu Dhabi, 150 chilometri a sud-ovest: Sheikh Mansour, il proprietario del City e dell’Al Jazira, paga bene (diciamo il triplo di una media Serie A?) e Zenga dopo settimane di contatti ha accettato. Negli Emirati convivono manager europei, tassisti pachistani e calciatori brasiliani: è il posto perfetto per Raluca, laureata in Lingue e Letterature Straniere.
Ha vinto lei, giusto?
«Sì, io ho perso. Raluca parla 7-8 lingue: romeno, francese, tedesco, spagnolo, arabo scritto e parlato, anche urdu coi pachistani in taxi. Loro quando la sentono si spaventano, vedono questa ragazza bionda-giovane col marito vecchio-pelato e pensano che siamo del Kgb o della Cia».
E in spogliatoio come si fa?
«Per il mio staff ho due regole: mi serve gente con capacità di vivere lontano dal suo habitat e parlare le lingue. Stefano Cusin era con me in Arabia e ha lavorato in Francia, Bulgaria ed Emirati. Paolo Terziotti, il preparatore, è stato in Polonia e parla francese, il nostro traduttore è un italiano di origine siriana. E l’analista, che non è il mio psicologo ma la persona che studia gli avversari, è iraniano».
Ma non c’è mai stata la possibilità di tornare in Serie A negli ultimi mesi?
«In Italia no e Bozzo, il mio procuratore, mi ha quasi chiesto scusa per questo. Gli ho risposto: “Beppe, sono i presidenti a non capire che sono un grande allenatore”. In realtà nell’ultimo periodo ho fatto il giro del mondo per parlare con mille squadre. Arabia, Stati Uniti, il Genclerbirligi in Turchia, qualcosa in Cina. Al Middlesbrough sarei andato a piedi, ma non mi hanno preso».
Nazionali, niente?
«Il Kazakistan e l’Azerbaigian. Tutti però come prima domanda mi chiedono: “Walter, quanto guadagni?”. Io rispondo: “Ma tu perché mi vuoi?”. Se la prima domanda sono i soldi, partiamo malissimo».
Una teoria nata da esperienze negative?
«In Qatar una volta mi hanno offerto una paccata di quattrini, ma nella vita ho seguito due volte il dio denaro e per due volte ho pagato con errori personali. Oggi non lascerei mai la mitica Crvena Zvezda».
Fabio Cannavaro dice: «Ho tentato di convincere l’Al Ahli a prendere Zenga». Tutto vero?
«Vero. Sarebbe stato un grande piacere lavorare con Fabio... ma credo che sarebbe stato bello anche per lui».
A proposito di occasioni mancate, l’Inter è passata a un indonesiano, uno dei pochi Paesi in cui Coach Zenga non ha amicizie. La sfortuna, certe volte...
«Non è importante: allenerò l’Inter in un’altra vita. Thohir però mi è simpatico, sarebbe ridicolo se uno straniero desse fastidio a me. Piuttosto, è bellissimo che Moratti, come Prisco, mi abbia incluso nella sua Inter ideale».
Gioco chiama gioco: abbiniamo un sentimento a una partita. Partiamo dalla soddisfazione.
«Mi limito all’Italia. Pari merito Palermo-Catania 0-4 e Palermo-Juve 2-0. Cavani era già un fenomeno, in settimana si lamentava: “Mister, io voglio giocare da attaccante”. Poi la domenica faceva il terzino senza che tu glielo chiedessi».
Commozione.
«La salvezza col Catania».
Ira funesta.
«Bologna-Palermo 3-1, pessimo l’atteggiamento. Kjaer fece due errori imbarazzanti».
E adesso, che cosa c’è di bello nel calcio?
«Ora faccio come Thohir che sorprende scegliendo Ventola: mi piace il modo in cui Klopp usa gli attaccanti in fase difensiva e mi incuriosisce un modello di allenamento dell’Anderlecht. Tra i portieri, Neuer è l’evoluzione della specie».
Zenga invece a chi piace? Solo agli emiri?
«Qui dicono che non sto calmo, che mi agito troppo. Rispondo che sono fatto così: “I cannot keep calm, I am Italian”».
La mania per le palle inattive è sempre viva?
«Certo. Inter-Catania del 2008 resta una delle mie partite migliori. Mourinho marcò a zona sul nostro primo angolo, a uomo sul secondo, con una mista zona-uomo sul terzo. Era lui che si adattava a noi».
Qual è lo schema preferito?
«Uno in cui due uomini si mettono davanti al portiere e guardano lui, non la palla. I difensori non ci capiscono mai nulla. Gianni Vio, che ha lavorato con me tanti anni, lo faceva con due gemelli: il massimo».
Negli Emirati apprezzano?
«Qui sono tutti molto gentili. Una volta vado al club e arriva un ragazzo col dishdasha, il tipico abito bianco. Comincia a fare domande e io parlo parlo parlo, mi fermo solo quando vedo che il team manager mi fa dei segni. Vado da lui perplesso: “Ehi, sto spiegando le mie idee a un membro del board”. Si è messo a ridere: stavo raccontando tutto a un normale tifoso».
Altre difficoltà?
«Nessuna, a parte quelle con mia figlia di quattro anni. A scuola studia già l’arabo, a volte le parlo in italiano e lei risponde in inglese. Forse stiamo esagerando».