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 2013  novembre 02 Sabato calendario

L’ALTRA SIRIA: I CURDI E LA NASCITA VIOLENTA DI UNA NAZIONE


Derek (Kurdistan siriano) Con il suo inseparabile cappellino a visiera, la camicia di un finto stropicciato blu e azzurro, l’inesistente barba, il fratellino biondo e quello con gli occhi chiari, Hogen non rappresenta esattamente l’immaginario dell’uomo arabo mediorientale. O almeno non il nostro cliché di uomo mediorientale. Quando parla nel suo inglese dall’accento duro, Halgurd sa sempre esattamente cosa dice e ha chiaro i dubbi che vuole suscitare con il suoi discorsi: ogni riflessione affrontata, è stata da lui sviscerata giorni, mesi o molto probabilmente anche anni prima. Quando parla della cultura curda delle riforme del pensiero unico e della determinazione di un popolo introdotte da Abdullah Ocalan, gli occhi brillano di speranza e libertà: “Un giorno saremo liberi di parlare la nostra lingua, insegnarla a scuola e avremo la nostra terra. Il processo di cambiamento è già iniziato”.
È Halgurd, sotto il suo berretto, la prima persona che vedo quando scendo dalla barca usata per trasportare avanti e indietro i civili sullo stanco fiume, un tempo il polmone della Mezzaluna Fertile. L’impressione che mi ero fatto leggendo i libri sulla Mesopotamia, era di una terra dove la ricchezza e la maestosità prosperassero. Come spesso accade, la realtà è diversa dall’immaginazione e il nobile Tigri lungo questo tratto di frontiera, si è trasformato in Acheronte e le grandi imbarcazioni di un tempo hanno preso le sembianze di squallide scialuppe dove Caronte fa spola tra la vita e l’Ade. Da una parte l’Iraq e dall’altra la Siria, o meglio, il Kurdistan del Sud e il Rojava.
UNO STATO E UN POPOLO FANTASMA DIVISO TRA QUATTRO PAESI
Il Kurdistan, il sogno dello Stato che non c’è, un’area piena di risorse petrolifere che ha sempre perso ogni lotta di riconoscimento, è una terra spezzettata e ambita da molti, divisa su quattro paesi e circondata dall’odio dagli stessi. Il Kurdistan del Nord, ovvero la Turchia, la stessa che ha sempre considerato l’etnia curda alla stregua di terroristi internazionali, ha bandito il movimento e rinchiuso in carcere a vita il suo leader Ocalan. Qui i curdi vivono in totale clandestinità, cercando di parlare la loro lingua madre lontano dagli occhi indiscreti di Erdogan. Nel Kurdistan dell’Est (Iran), essere curdo vuol dire non poter vivere alla luce del sole. In particolare, dopo la cacciata dello Scià nel ’79, il regime di Teheran ha represso violentemente ogni timida rivendicazione da parte dei curdi e di tutti coloro non in linea con la parola del capo supremo Khomeini.
Anche in Iraq la storia dei curdi ha lo stesso sapore agrodolce, ma vive un presente diverso. Sotto Saddam, l’etnia ha sofferto una delle pagine più violente delle sua storia: nel 1998 il dittatore attaccò l’area indipendentista con armi chimiche uccidendo migliaia di persone. Solo dopo la sua morte, i curdi sono riusciti a organizzarsi e a creare una sorta di Stato federale all’interno dell’Iraq, riconosciuto da Bagdad, ma non dalla comunità internazionale. Erbil (Euler in curdo) ne è diventata la capitale e il governo capeggiato da Barzani aspira alla completa autonomia viaggiando a ritmi rapidi anche per le potenze occidentali.
Mentre scendo dalla scialuppa e tutte le anime vanno incontro al proprio destino, penso a quanto è cambiata la Siria dall’ultima volta che sono venuto. È passato un anno e migliaia morti, milioni di profughi e lo spettro delle armi chimiche. La richiesta di democrazia e di libertà urlata dall’esercito ribelle si è trasformata in lotta islamica per il controllo del territorio. In molte città, le cellule jidaiste hanno sostituito il Free Syrian Army conquistando i punti strategici del paese: Azaz al confine con la Turchia, Aleppo e la zona centro orientale, le città di Deir-az-Zoir e Raqqa.
Salto così sull’auto che zigzagando tra gli sterminati campi di petrolio ci porta a Derek, al Malkia in arabo. Come nel Kurdistan iracheno, qui più che mai, ogni singolo paese, città o tenda spersa nella tundra, ha il doppio nome. Quello conosciuto al mondo, scritto in arabo e quello comprensibile solo ai 40 milioni di curdi. Curva dopo curva il paesaggio cambia: salutate le montagne turche di confine, scendiamo in collina, che piano piano si è fatta sempre più bassa e sempre più ampia fino a diventare pianura e poi un deserto ornato di centinaia di pompe petrolifere. Strani marchingegni di metallo che in controluce sembrano uccelli con il becco in giù, pronti a scavare per trovare oro. A Derek, dopo poche ore abbiamo già incontrato la portavoce della Woman Academy i membri della People’s House, il responsabile degli Asays, la censura e il nostro uomo. Praticamente tutta Derek in meno di un giorno ha saputo che tre reporter europei volevano vedere quello che c’è dietro la guerra. Fare giornalismo in Kurdistan non è come farlo nella altre zone della Siria: gli anni di sofferenza e quelli di sottomissione, una stessa educazione e un indottrinamento culturale, hanno reso il popolo curdo più efficiente e più compatto. Conoscono bene il ruolo e la forza dell’informazione e si promuovono a fare buon viso a cattivo gioco. Questo non vuole dire necessariamente censura, ma indirizzamento verso qualche evento anziché qualche altro di maggiore interesse giornalistico.
Fortunatamente Halgurd, divenuto il nostro fixer, ha saputo destreggiarsi fra la morsa del pensiero comune e quella più forte di tre giornalisti che non avevano nessuna intenzione di arrendersi.
In una decina di giorni abbiamo ottenuto i permessi per andare alla frontline di Ras al Ayn e a quella di Ramelan, per passare la città contesa dal regime di al-Quamishi e presenziare al Training Camp degli Ypg di Shedshelan, per intervistare lo spokeman degli Ypg Seliman Mohmed e Salim Muslim, il numero 1 del Rojava, l’esponente di punta del Pyd, il più grande partito politico curdo-siriano. E come in ogni conflitto, abbiamo assistito all’esodo di migliaia di profughi che scappano dalla guerra. Le decine di persone incontrate e gli innumerevoli chilometri macinati mi hanno fatto riflettere e vivere il momento storico di cambiamento e creazione del nuovo Rojava.
Un nascita militare politica e ideologica. Quello che il partito di maggioranza e il braccio militare chiedono è uno spazio dove i curdi possano rispettare la propria legge, parlare la propria lingua e avere l’indipendenza economica. Per questo le milizie dello Ypg (People’s Protection Units) combattono lungo i confini immaginari dell’area per difendere le posizione sotto gli attacchi degli islamisti. Dalla primavera i gruppi armati islamici di Jabat al Nusra e di Isis (Islamic State of Iraq and Al-Sham), hanno cercato di allargare la loro zona di controllo ed espugnare l’area di al-Quamishi di Amuda e di Ras al Ayn. Conquistando questo tratto di frontiera con la Turchia, avrebbero controllato il valico verso un paese apparentemente amico. Inizialmente hanno avuto la meglio, ma ad agosto lo Ypg con dure controffensive ha riconquistato le città contese e la frontiera delimitando con trincee il territorio controllato. Vista come una lotta di liberazione contro i soldati di Jabat al Nusra e Isis, la popolazione appoggia con tutte le forze lo Ypg e la nuova polizia curda degli Asays. Con decine di check-point gli Asays controllano chi entra e chi esce da ogni villaggio mentre l’esercito di protezione combatte per il popolo lungo i confini. Sul fronte occidentale, vicino alla Turchia. la presenza dei lealisti è più forte. Dopo qualche giorno passiamo i check-point appena rallentando e salutando con un cenno gli Asays di vedetta. Oramai conosciamo l’intera area di Derek e decidiamo di muoversi verso il fronte più occidentale di Serykaney (Ras al Ayn), a ridosso del confine turco.
SUL FRONTE OCCIDENTALE, VERSO LA TURCHIA LA PRESENZA DEI LEALISTI È PIÙ FORTE
Durante il tragitto, si intravedono le bandiere prima rade, poi sempre più fitte, dell’esercito di Assad. Il governo è ancora presente in Siria e non manca nemmeno nella zona curda. Prima della guerra le grandi risorse petrolifere erano destinate a Damasco e il regime era l’unica legge anche in Rojava. Ora i rubinetti sono chiusi e i militari di Assad praticamente scomparsi. Tranne che ad al-Quamishi dove hanno ancora dei check-point e controllano il traffico mentre lo Ypg giorno dopo giorno ne fa sempre di più la sua base. Oramai distrutto da una guerra che ha lacerato il paese, anche Assad deve scendere a patti più o meno ufficiali fuori e dentro i propri confini. Né Bashar né suo padre Hafiz hanno mai amato i curdi ma in un momento dove gigantesche risorse vengono spese per vincere la guerra e scacciare gli le milizie jidaiste, aprire un altro fronte a est risulterebbe controproducente. Soprattutto se anche i curdi combattono contro Jabat al Nusra e contro Isis. Quindi vige una sorta di accordo informale di pace apparente che per ora risparmia ai curdi i raid dei Mig e al regime un problema da risolvere.
Nonostante l’accordo nessuno si fida del nemico. Durante l’intervista a Salih Muslim, diventato martire dopo avere perso il 9 ottobre il figlio Servan ucciso da un cecchino di al-Nusra, gli chiedo proprio come può fidarsi di chi fino a ieri gli ha sparato contro e non ha mai riconosciuto l’etnia curda. Senza bisogno di interprete e guardando dritto in camera mi conferma come questa guerra sia divenuta sporca, si sia trasformata e non abbia più nulla a che vedere con la lotta per la libertà. Salih Muslim è un uomo che ha appena perso il proprio figlio mentre lottava per la liberazione del paese e allo stesso tempo è la guida politica più influente. In modo diretto e schietto mi dice: “Come facciamo a essere amici di chi fa affari con i nostri nemici?”.