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 2013  novembre 02 Sabato calendario

LA SPIA DEL GHETTO SI CHIAMAVA CELESTE

VETTA LA PANTERA FECE ARRESTARE E UCCIDERE
LA SUA GENTE –

ROMA – LA TRAGEDIA DEL GHETTO EBRAICO DI ROMA, CON IL RASTRELLAMENTO DEL 16 OTTOBRE DEL 1943, HA RIPROPOSTO ALL’ATTENZIONE DI TUTTI IL DOLORE, LA SOFFERENZA, IL TERRORE E LA MORTE di migliaia di persone portate via, verso le camere a gas, in una città incupita e sconvolta dall’occupazione e dalle scorribande quotidiane dei torturatori fascisti e nazisti. Era la città di Kappler, di Priebke, di via Tasso e delle bande Bardi-Pollastrini e Koch. Poi, la città delle Fosse Ardeatine, con quelle grotte piene di poveri morti che erano stati uccisi, come bestie, cinque alla volta, con le mani legate dietro la schiena.
Il ricordo di quei giorni, di settanta anni fa, ha fatto anche riemergere storie infami di spie e di spioni, di gente che «vendeva» gli ebrei, gli antifascisti e i «banditi», ai nazisti e alla polizia fascista, in cambio di soldi o di qualche chilo di sale.
Di questi personaggi, tutti parlano, ancora oggi, sottovoce, malvolentieri e con uno strano pudore perché è come ammettere, anche a distanza di tanto tempo, una sconfitta della fratellanza, della solidarietà e della pietà. Perché la spia poteva anche essere semplicemente un tuo vicino di casa che per anni ti aveva salutato ogni mattina, il tuo professore di scuola, il proprietario del negozio dove avevi fatto la spesa ogni giorno o addirittura un parente con il quale ti eri seduto a tavola durante le feste o nelle grandi occasioni.
Celeste Di Porto, la «Pantera nera» o «Stella di piazza Giudia», come la chiamavano tutti, è stata una di queste spie, una delatrice giovanissima che gli ebrei di Roma non dimenticheranno mai perché era una di loro, nata e cresciuta nel Ghetto con amici e parenti tra il Portico d’Ottavia e il Lungotevere.
«Stella», certo, come la chiamavano i genitori perché era bella, bellissima, con occhi e capelli nerissimi e un petto prorompente. Era nata il 29 luglio del 1923. Il padre Settimio aveva un negozietto da merciaio e la madre Ersilia si occupava di altri sette figli. Celeste, appena superati i quindici anni, era stata mandata a lavorare come commessa e come donna delle pulizie. Tutti raccontano che la ragazzina era «sfrontata», strafottente, senza ritegno e quasi aggressiva. Nel Ghetto, proprio per questo motivo, avevano cominciato a criticarla ad alta voce, a sfotterla, a girare alla larga quando arrivava lei. Celeste, che aveva appena diciotto anni, si sentiva ormai emarginata e reagiva con rabbia, insultando a destra e a manca.
Dicono che, ormai, era promessa ad un ragazzo ebreo che la corteggiava da tempo. Un giorno, invece, Celeste si era presentata nel Ghetto accanto ad un giovane uomo vestito con la divisa fascista. Lui si chiamava Vincenzo Antonelli e faceva parte della banda Bardi e Pollastrini, quella che aveva sede a Palazzo Braschi. Erano un branco di torturatori e di ladri che poi verranno addirittura arrestati dai nazisti. Tra l’altro, già dal 1938, erano in vigore le leggi razziali, ma Vincenzo Antonelli, comunque, insieme ad un gruppo di camerati, andava sempre a mangiare in un piccolo ristorante del Ghetto ed è li che aveva conosciuto Celeste. Per lei era stata, dal punto di vista psicologico, una specie di rivincita su tutta la gente del quartiere che ora la guardava con il rispetto dovuto alla paura perché il suo uomo girava con lei armato di tutto punto e pronto ad arrestare chiunque.
Il giorno del rastrellamento del Ghetto, il padre di Celeste, Settimio, era casualmente uscito per comprare le sigarette e si era salvato. La madre, i fratelli e le sorelle, erano riusciti ad uscire appena in tempo da una porticina. Celeste, invece, girava tra i nazisti con assoluta tranquillità.
È dopo l’attacco partigiano di via Rasella, che Celeste non ha più remore. È lei, secondo alcuni, che fornì al comando tedesco i nomi di una ventina di ebrei per completare la lista di coloro che dovevano essere uccisi alle Ardeatine. Quei suoi vicini, infatti, finirono ammazzati alle Cave. Non contenta. Celeste, ogni giorno, camminava nella zona di Campo de’ Fiori e segnalava, muovendo la testa, ai poliziotti tedeschi in borghese, chi doveva essere arrestato perché ebreo.
Dicono che quel poveruomo di Settimio, il padre, per la vergogna e il dolore, si consegnò volontariamente ai tedeschi e morì in un campo di concentramento. Lei intanto, si faceva consegnare, da altri correligionari, soldi e gioielli in cambio della promessa di salvezza.
Si racconta che almeno cinquanta ebrei siano finiti nelle mani dei nazisti per colpa sua. Tra gli altri suo cognato Ugo Di Nola e il cugino Armando Di Segni. È lei che fece arrestare anche il pugile Lazzaro Anticoli detto Bucefalo. Fu proprio lui che denunciò Celeste. Con un chiodo scrisse su una parete della sua cella, la numero 306 di Regina Coeli: «Sono Anticoli Lazzaro detto Bucefalo, pugilatore. Si non arivedo la famija mia è colpa de quella venduta de Celeste Di Porto». Bucefalo, comunque, non rivedrà mai la famiglia: è uno dei martiri delle Ardeatine.
Il 4 giugno 1944, quando gli alleati arrivano a Roma, Celeste Di Porto sparisce. Più tardi, in una casa di tolleranza di Napoli, due ragazzi ebrei del Ghetto, la riconoscono. Lei si fa chiamare Stella Martellini. I due ragazzi raccontano ai clienti chi è quella ragazza e, per poco, Celeste viene linciata. La polizia militare l’arresta e poi la rilascia e lei finisce a Perugia in un convento. Alla fine il nuovo arresto e il ritorno a Roma». Sarà processata e condannata a dodici anni di carcere, ma ne sconterà solo sette.
Divenuta cattolica in cella, uscirà e si trasferirà a Trento dove si sposerà. Dicono che sia morta nel 1981. Di lei, comunque, nessuno, per tanti anni, ha saputo più nulla.