Stefano Elli, Plus, Il Sole 24 Ore 2/11/2013, 2 novembre 2013
CHI SUPERVISIONA LE COOP IN CRACK
Quando il modello mutualistico e cooperativo entra in contatto con la finanza, per definizione regno dello «yes profit» talvolta si vedono scintille. In alcuni casi, poi, a scatenarsi sono incendi veri e propri. È accaduto nei casi delle reggiane Orion e Cooperativa muratori di Reggiolo (Cmr), colpite e affondate dalla crisi del mattone oltre che da investimenti sbagliati.
Uno dei crack più dirompenti degli inizi degli anni ’90 si è verificato a Cento (Ferrara). Nel grosso centro emiliano due fratelli, Stefano e Valerio Melloni, avevano dato vita a un gruppo assai articolato, composto da commissionarie, fiduciarie e società di intermediazione mobiliare. Ma tutte avevano trovato il proprio vero polmone di approvvigionamento di denaro proprio tra i soci di una cooperativa. Si chiamava Cofeur. Aveva 1.800 soci e un patrimonio di 90 miliardi di lire, tutti finiti in un buco senza fondo. La presenza all’interno del gruppo di una società fiduciaria però attrasse l’intera galassia sotto l’ala della vigilanza del ministero dello Sviluppo economico. Che sottopose la società a procedura di liquidazione coatta amministrativa. Il ministero, dunque, nominò un commissario liquidatore. Peccato che questi a propria volta si rivelò «infedelissimo» essendosi intascato personalmente i soldi della procedura.
Altro caso di scuola quello di un’altra cooperativa, questa volta laziale: la Cofiri di Tarquinia (Viterbo). Nella vicenda finirono coinvolti 2.700 soci in un buco da 140 miliardi. La cooperativa aveva sedi in altre città italiane: Cremona, Milano, Genova, Torino e Brescia. Ben 400 soci si rivolsero all’avvocato Paola Pàmpana, specializzato in casi del genere (caso Italfin, caso Otc Sgarlata, Sfa). Pàmpana si attivò, come in altre situazioni in una battaglia contro gli organi di controllo che avrebbero avuto il potere di vigilanza e non lo avrebbero esercitato adeguatamente. Nel caso delle cooperative: all’epoca il ministero del Welfare.
Anche qui, numerose furono le cause intentate nei confronti del dicastero. Almeno due le sentenze di appello: la 5.178 del 2011 emessa dalla seconda Sezione civile del tribunale di Roma, e la 496 del 2010. Entrambe condannarono il ministero al risarcimento di parte dei danni per la mancata vigilanza. Per giungere alla sentenza della prima Sezione civile della Corte di Cassazione: la numero 22925 del 9 ottobre scorso, in cui si dà atto di un’effettivo mancato esercizio dei poteri di vigilanza da parte degli organi dello Stato. Un mancato esercizio che avrebbe potuto, se non evitare il crack, almeno limitarne i danni.