Mirella Serri, La Stampa 2/11/2013, 2 novembre 2013
NON SI DIMENTICA IL PRIMO AMORE NELLA ROSSA ISTANBUL
Magico Oz! Di solito le storie del gran mago del cinema, Ferzan Ozpetek, che fanno il pieno di nastri d’argento e globi d’oro, traggono sangue e linfa dalla sua vicenda personale, mettendo in scena la fragilità dei sentimenti (il moderno «amore liquido» lo chiamerebbe Zygmunt Bauman), l’amicizia, l’omosessualità, la perdita di chi si ama. Ma adesso il 54enne regista, che di identità ne ha almeno un paio, turca e italiana, mescola la letteratura e la vita nel romanzo d’esordio, Rosso Istanbul (Mondadori). «Tesoro, da Roma portami una tuta rossa, smalto porpora e rossetto carminio». Strana richiesta: la bella mamma, come racconta Ozpetek nel libro, ha sempre indossato camicie crema e tailleur carta da zucchero, ma ora, appena uscita dal coma, cerca le tonalità più vistose: «Mi porta sempre in quella stanza buia», spiega al figlio appena arrivato a Istanbul dalla città eterna. «Penso che mi voglia baciare... Non preoccuparti, non mi ha mai messo le mani addosso». Cosa sta accadendo? Cose turche, verrebbe da dire, in senso letterale. La signora ultraottuagenaria ci commuove poiché confonde la gentilezza del suo fisioterapista con l’amore («se non sono giovani non le piacciono, lei si sente giovane, almeno dentro», osserva ridendo l’artista che da Le fate ignoranti a Saturno contro non si nega mai un tocco di humour alla Woody Allen).
Proprio questa confidenza della madre sulle sue aspettative di seduttrice ha dato il via e spinto Ozpetek, approdato diciassettenne in Italia per studiare cinema, a cimentarsi con la trama a cui pensava da anni. Dove due vicende corrono in parallelo: quella (d’invenzione) di due coppie di italiani che scoppiano e vanno in pezzi mentre sono in visita a Istanbul e si sviluppa la protesta dei ragazzi turchi, e l’ironica e struggente narrazione dell’educazione sentimentale dello stesso Ferzan. Il suo nome vuol dire «l’ultima luce del tramonto» e da ragazzino si è trovato ad assorbire raggi da un assai particolare harem casalingo.
Il padre è lontano - il bambino erroneamente lo ritiene sempre in viaggio in Italia - e domina la mamma, con due pascià nell’albero genealogico e tanti segreti, telefonate sussurrate e lettere nascoste. Poi ci sono le zie, come la single Betul innamorata dell’amore, che non si nega le scappatelle e teorizza: «Se un uomo non è capace di far volare un aquilone non riesce nemmeno a far felice una donna». «In Turchia il gentil sesso ha goduto, rispetto al resto d’Europa, di una condizione privilegiata, dal divorzio facile alla protezione economica», commenta Ozpetek oggi alle prese con il montaggio del nuovo film, Allacciate le cinture. «Mia madre ha avuto due mariti, il primo molto charmant, gran donnaiolo. e il secondo, mio padre, raffinato e imprevedibile: citava le poesie di Hikmet, dissertava di Steinbeck e di Hemingway e dieci minuti dopo poteva prenderti a schiaffi. Mamma e le sue amiche non predicavano nessun tipo di emancipazione ma la praticavano».
Tutto questo sarà uno speciale viatico per il futuro maestro del grande schermo e gli ispirerà frasi del tipo «Se uno fa sempre quello che gli dicono gli altri non vale la pena di vivere» (in «Mine vaganti»), mentre la mamma ancora oggi non si smentisce quanto a originalità e indipendenza di giudizio («”Anche tu dovresti fare dei figli, sai? Fanne due o tre...”. “Mamma, io?”. Mia madre lo sa: ora nella mia vita c’è un uomo… “Sì, proprio tu. Un modo si trova, credimi? Finalmente ami e sei amato: fai un figlio con lui!”»).
Da lei il regista ha imparato che esistono tante forme di anticonformismo: «”Non voglio più giocare con i bambini greci, sono esseri inferiori come gli armeni”, le comunicai a 10 anni», rammenta il cineasta. «La responsabilità era della maestra. Mia madre infuriata andò dal preside, l’insegnante si rifece su di me e mi punì. Ma così ho conosciuto il coraggio delle donne e il loro sesto senso che, credo, appartenga anche ai veri artisti».
A connotare la crescita di Ozpetek c’è poi il dolore per le violente reazioni della famiglia alla scoperta del primo amore, l’amico Yusuf, morto suicida non molto tempo fa: «Mio padre quando si accorse del mio legame mi portò dallo psichiatra con una scena a cui mi sono ispirato nel film che sto realizzando. Successivamente è arrivata l’attrazione per la volitiva e determinata Neval». E, poi, ecco il momento del Nuovo cinema Paradiso di Ferzan: a Istanbul si chiamava Emek Sinemasi: «Lì è avvenuto il mio battesimo, ho capito che cosa sia fare cinema, ammaliato da Cleopatra, dal Dottor Zivago, Lawrence d’Arabia, My fair lady, Divorzio all’italiana».
Vera protagonista di questo racconto, traboccante di energia e di vitalità, è Istanbul la rossa - per i tramonti e per le proteste giovanili - città d’arte e d’avanguardia. E l’Italia? «Domina l’umor nero, la depressione. Ma ci stiamo riprendendo. C’è chi ci rende più sicuri e ottimisti. Papa Bergoglio invoglia a battere nuove strade: è lui oggi il vero rivoluzionario». A un papa poverello e innovativo come Francesco, lo stregone della cinepresa dedica la suggestiva avventura di donne (e uomini) ribelli e intraprendenti.