Fabrizio Massaro, Corriere della Sera 3/11/2013, 3 novembre 2013
I LIGRESTI NON HANNO CAPITO NOTTI IN PIEDI PER SALVARLI
[Piergiorgio Peluso]
Non vuole parlare delle polemiche sulla madre, il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, per l’interessamento verso Giulia Ligresti in carcere; ma del suo lavoro in Fonsai Piergiorgio Peluso, 45 anni, top manager di Telecom da un anno, dopo aver lasciato la compagnia assicurativa, parla eccome. Per difendere il suo operato e respingere le accuse dei Ligresti di essere stato l’emissario delle banche inviato per privarli della compagnia. «Non è così, ovviamente. Che queste accuse arrivino da Jonella e Giulia, che non hanno la più pallida idea di che cosa parlano, è sintomatico».
Allora raccontiamo com’è andata.
«Sono arrivato in Fondiaria a giugno 2011 dopo l’aumento di capitale, quando le banche posero il tema della discontinuità manageriale. Io avevo lavorato in Capitalia e UniCredit seguendo i più grandi gruppi, compreso quello Ligresti. E poi c’era la conoscenza famigliare, più con Antonino Ligresti che con Salvatore. Fondiaria nacque per me come una opportunità di carriera interessante».
Ma lei cominciò subito a ripulire i bilanci…
«Ad agosto scoppiò la crisi finanziaria, e con lo spread a 500-600 l’impatto sul portafoglio di una compagnia è immediato. A questo si combinò la crisi delle riserve, perché a fine settembre l’Isvap identificò un fabbisogno di riserve per circa 600 milioni. Poi c’era il mercato immobiliare, che pesava in Fonsai più del doppio che in ogni altra compagnia. Questa combinazione portò a un nuovo aumento di capitale. E tutto questo non ha niente a che vedere con la predeterminazione di cui parlano i Ligresti, è inaccettabile. Stiamo parlando di un’azienda molto debole che ha avuto una situazione di collasso. L’indice di solvibilità era sceso a 75, quando la legge impone 100 e la compagnia si era posta il limite di 120. Insomma mancava il requisito per continuare l’attività associativa, l’Isvap poteva commissariarla un minuto dopo. Io me le ricordo le notti che passavo in ufficio cercando delle soluzioni alternative».
Giulia la accusa di aver fatto diventare azionista il fondo Amber, che subito dopo ha denunciato le operazioni tra la compagnia e i Ligresti, dando vita all’inchiesta.
«La consequenzialità di Amber può destare delle domande, lo ammetto. Ma anche noi siamo rimasti stupiti quando hanno fatto quelle domande. Io li ho conosciuti solo in quella occasione. Loro comprarono dei diritti che come Fonsai eravamo obbligati a vendere. Ce li portò Unicredit, perché era la banca che seguiva l’aumento di capitale. Erano normali investitori. Per me la denuncia sulle operazioni con parti correlate fu un fulmine a ciel sereno. Evidentemente Amber voleva forzare una situazione e ha scelto quella strada legale. Ma nessuno è mai entrato in Fonsai con l’ottica che dice adesso la famiglia».
Quando espose i problemi di Fonsai ai Ligresti, quale fu la reazione?
«Alla famiglia dissi: purtroppo la crisi è qualcosa che è più grande di noi, non siamo più in grado di gestirla. E provammo altre strade per recuperare patrimonio, visto che sapevo che per la famiglia l’aumento di capitale era l’extrema ratio. Cercammo di vendere pezzi di società, e cercai soci esteri: ma nessuno voleva sentire parlare di rischio-Italia in una Fonsai che aveva 30 miliardi di Btp in pancia. Fu l’Isvap che ci obbligò all’aumento di capitale, perché eravamo sotto i limiti regolatori e non ci lasciava ancora tempo. Pensare altro è la solita teoria del complotto».
E lei scelse di difendere la società.
«Lì ci fu la rottura, di fatto mi diedero del traditore perché capirono che avevo preso una strada per loro molto complicata. Ma anche in quel contesto la famiglia ebbe la possibilità di trovare soluzioni alternative. Aveva studiato in totale autonomia insieme con il suo advisor Banca Leonardo l’operazione con Palladio, con cui però poi loro stessi decisero di chiudere, per aprire con Mediobanca e dunque con Unipol. Io non sono mai stato coinvolto perché non ero più parte delle loro discussioni. Dunque nessun complotto, nessuna eterodirezione, tutte cose verificabili e documentate».
Lei contestò alla famiglia di «costare» 100 milioni.
«La frase va inserita in un contesto. Io feci una ricostruzione di tutto il costo allargato della famiglia, comprese le operazioni immobiliari e tutto il resto. Il mio obiettivo era arrivare a un accordo per una riduzione di quell’importo. Se per esempio l’avessi ridotto di due terzi, avrei avuto 60-70 milioni in più in cassa. Loro sarebbero rimasti con una remunerazione importante ma ridotta. Oramai era tanta la pervasività della famiglia che parlavamo di numeri insostenibili. Sono convinto che quell’azienda, con risparmi sui costi e un efficientamento dei rischi, è la più bella compagnia italiana. Unipol ha fatto un affare, in senso industriale; ha comperato un’azienda che, ristrutturata, è ottima».
Fabrizio Massaro