Antonio Gnoli, la Repubblica 3/11/2013, 3 novembre 2013
CLAUDIO MAGRIS
In ogni scrittore c’ è un passato leggendario (buono o cattivo non importa) che, nel sortilegio della memoria, brilla di luce propria. n ogni scrittore c’ è un passato leggendario (buono o cattivo non importa) che, nel sortilegio della memoria, brilla di luce propria. Nel giovane Magris quel passato cinse il vasto perimetro della Mitteleuropa. Nel quale divorò storie, romanzi, avventure. Annusò le piste che partendo dall’ incrocio di terre di confine - fra Trieste e l’ infinito - lo portarono a scoperte sorprendenti. La letteratura gli parve dotata di organi vitali: occhi, polmoni, gambe. Perfino la più trascurabile unghia poteva, se colta nel punto giusto, graffiargli l’ anima. Rammentargli il dolore che una frase può procurarci, come, allo stesso modo, la più immensa delle felicità.
Se penso a Claudio Magris letterato lo vedo dentro questa luce di certezza: tutto ciò che egli legge è anche ciò che finisce con amare. Ci vediamo a Roma. Egli è appena arrivato da Lisbona e ancor prima da Cracovia. Conferenze, premi, incontri, spesso legati alla traduzione di qualche suo libro, regolano una vita segnata dal vagabondaggio urbano. È un uomo curioso, vitale, dal carattere aperto. Parla velocemente. Ma le sue parole traboccano di riflessione, un po’ come accadeva di leggere in certi grandi romanzi viennesi.
Quali sono state le sue prime letture?
«Si perdono nell’ infanzia. Tutto cominciò con Salgari. Era una zia che me lo leggeva e fu forte l’ impressione orale. Come se le storie non fossero scritte da un signore, ma fosse la vita stessa a raccontarle. Sapevo Salgari a memoria. Poi passai a Conrad e Melville e ai grandi poemi epici. A 14 anni comprai il Ramayana, tradotto da Gaspare Gorresio. Con il papà e la mamma si parlava spesso di storia e poi gli amici sono stati fondamentali».
Come era da bambino?
«Introverso. Afflitto da una solitudine non malinconica, autosufficiente. Invidiavo il coraggio fisico di mio padre».
Cos’ era quel coraggio?
«La familiarità con il mondo esterno. Qualcosa che appresi quando cominciai ad andarea scuola: improvvisamente, attraverso la frequentazione del giardino pubblico scoprii le corse, la banda, il senso dell’ amicizia».
Dove avveniva tutto questo?
«A Trieste, dove sono nato. Anche i miei erano triestini. Mio padre originario del Friuli, mia madre di origine greco dalmata. E poi gli zii e le zie, e i nonni. Su tutti spiccava lo zio Nello, fu il mago della mia infanzia. Durante i giorni che precedevano il Natale preparava piccoli oggetti straordinari da regalarmi. Aveva il genio della manualità. Lavorava in una stanza con la porta smerigliata chiusa. Un giorno si applicò due ali in modo che attraverso il vetro opaco sembrasse un angelo. Lo zio Nello fu straordinario, ma non conosceva il senso del denaro. E questo, alla fine, lo portò a perdersi».
Ci sono personaggi che vivono al di sopra delle proprie possibilità.
«Quando si incontrano scorgi a volte sui loro volti l’ imminenza di una catastrofe. Lo zio Nello si suicidò, a 63 anni, in un albergo, dentro una vasca da bagno per paura di sporcare».
Cos’ è una morte che non ci si aspetta?
«Verrebbe da dire è la vita. Gli anni della mia formazione furono belli, prima a Trieste poi a Torino: la solidarietà tra i compagni, l’ amicizia, lo scherzo come invenzione. E se ripenso a quei giorni provo solo la tristezza per coloro che non ce l’ hanno fatta, e che, nel lungo corso degli anni, sono morti suicidi. Mi chiedo anch’ io cos’ è stato tutto questo».
E ha trovato una risposta?
«Penso che il dolore vero sia prima della tragedia. Stringe il cuore vedere queste trappole della vita, come tagliole umane che si chiudono e straziano. È ciò che prepara il morire che spaventa. Questo fa impressione».
Accennava a Torino, è lì che si è laureato?
«Sì, e l’ idea fu di Giovanni Getto, il grande storico della letteratura italiana. Non mi laureai con lui, ma gli devo tantissimo e la mia storia sarebbe stata diversa se non l’ avessi incontrato all’ esame di maturità».
Si dice fosse un uomo molto complicato.
«Era un uomo fragile, nevrotico, ma se ho imparato come si analizza un testo lo devo a lui».
Però lei scelse la germanistica.
«Le mie radici sono triestine. Ma fu a Torino, forse per curiosità o nostalgia, che scoprii che Trieste non era solo il Carso e le osterie, ma un mondo letterario e poetico straordinario».
Ha mai incontrato Ladislao Mittner, il maestro riconosciuto di tutti i germanisti?
«All’ epoca in cui mi laureai, no. In seguito lo conobbi benissimo. Era di Fiume e viveva a Venezia. Una volta venne a Torino per portare all’ Einaudi un volume della sua storia della letteratura tedesca, che è un grande capolavoro. La sera andammo a mangiare al Cambio e Mittner ordinò del Barolo. Il cameriere giunse con la bottiglia e lui disse: avevo chiesto del Barolo bianco. Il cameriere, dominandosi a fatica, replicò: il Barolo è solo rosso. A quel punto Mittner, rivolgendosi a me, commentò: vedi come nel tempo cambiano le cose, una volta il barolo era bianco! I suoi fantasmi, pensai, avevano la meglio sulla realtà».
A proposito di Einaudi, lei ha avuto una lunga collaborazione con la casa editrice.
«Pubblicai con loro Il mito absburgico, cioè la mia tesi laurea che finì nelle mani di Cesare Cases. E in seguito altri quattro libri. Feci un po’ il consulente e partecipai per un certo periodo, con qualche regolarità, ai famosi "mercoledì"».
Com’ erano?
«Era un rito torinese, interessante per le persone che vi partecipavano. Ricordo, oltre a Cases, la presenza di Giulio Bollati, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Franco Venturi e, ovviamente, Giulio Einaudi».
Quest’ ultimo fu detto fosse capriccioso e tirannico.
«Non ricordo episodi sgradevoli. Aspri sì. Giulio poteva dimostrarsi prepotente, ma bastava essere duri o ironici perché il dissidio si risolvesse. Giocava a creare il favorito e poi a farlo cadere. Ma è stato, indiscutibilmente, un grande editore».
Cosa pensa delle sue responsabilità in merito alla gestione economica della casa editrice?
«Sospetto che, negli ultimi anni, si fosse sviluppato in lui un senso di onnipotenza che ha permesso una certa disinvoltura finanziaria. E quando giunsero le conseguenze si creò molto imbarazzo. Ma Giulio Einaudi aveva fatto tutto questo per la casa editrice, non per sé. E ho voluto bene a quest’ uomo, che fu molto affettuoso quando mancò Marisa, mia moglie. Però, quando ricevette un avviso di garanzia, non me la sentii di andare a una cena di solidarietà per lui. Mi pareva fuori luogo. Cases, che l’ amava moltissimo, mi disse: un giorno almeno dovrebbe passarlo al commissariato».
Mentre parlava pensavo a come è strano il rapporto tra la letteratura e la vita e l’ editoria, che ne è uno dei possibili tramiti. Cosa vuol dire amare uno scrittore?
«È diverso dal giudicarlo. Senza la forza dello stile,è chiaro, un racconto o un romanzo non ti arrivano. Ma amarli è qualcosa in più. Conrad o Tolstoj, per fare degli esempi, non li avrei amati se non mi avessero fatto scoprire qualcosa di me che sapevo di avere ma mi era sconosciuta. Quando lessi i racconti di Singer sentii che fu la mia vita ad esserne coinvolta».
Ha conosciuto Singer?
«Benissimo e aggiungo che quando ami e ammiri profondamente qualcuno gli devi dire ciò che pensi. E a Singer, che ho amato visceralmente, dissi che i suoi romanzi non erano all’ altezza dei suoi racconti».
Se la prese?
«No, non fece come Elias Canetti. Mi rispose: sa, io scrivo quello che ho voglia di scrivere nel momento stesso in cui lo faccio. La semplicità era la sua forza».
Evocava Canetti, so che lo ha conosciuto bene.
«Lo conobbi a Londra nella seconda metà degli anni Sessanta. Tempo prima, Marisa mi aveva fatto leggere Die Blendung, Auto da fé, un capolavoro assoluto. Venne poi ad ascoltarmi a una conferenza su di lui all’ Istituto di cultura austriaco. Dopo, chiacchierammo a lungo e fu anche ospite da me a Trieste. Gli piaceva Trieste e ammirava Svevo. Poi, quando scrisse La lingua salvata - un libro che mi era piaciuto ma assolutamente imparagonabile ad Auto da fé - gli dissi che era come se Kafka dopo aver scritto La metamorfosi avesse fatto una conferenza sullo stesso argomento. Si seccò, in fondo gli piaceva controllare le sue interpretazioni. Era un uomo orgoglioso e risentito».
Finì così il vostro rapporto?
«No, continuammo a sentirci e a vederci. Poi accadde che in Danubio raccontassi la sua casa che conoscevo bene. Pensavo all’ omaggio che si fa a una persona straordinaria rivista nel suo ambiente. Ci restò malissimo. E allora, nel Diario, scrisse: anche le amicizie hanno un loro tempo, il tempo dell’ amicizia con Magris è finito».
Cosa ha provato?
«Molta tristezza e ho pensato che la grande tradizione dell’ ironia ebraica avrebbe dovuto proteggerlo. Così non è stato».
Torna spesso nei suoi discorsi, starei per dire nei suoi pensieri, la figura di Marisa Madieri, sua moglie, scomparsa nel 1996. Una donna e una scrittrice, a detta di molti, straordinaria. Cosa è stata per lei?
«Come posso dirglielo? Era l’ aria che respiravo. Al di là della nostra storia, il suo viaggio verso la morte l’ ha vissuto impedendo che si tingesse di nero. Faceva tutto quello che c’ era da fare senza disagio, sapendo benissimo di non poter essere ingannata. Ogni tanto ebbe il dispiacere e la paura di morire. Ma nessuna ansia né angoscia. Si spense il 9 agosto e ricordo che avevamo passato dei giorni bellissimi in giugno. Fino all’ ultimo la nostra vita fu piena. Poi il penultimo giorno, sebbene fosse completamente cosciente, si sentì sfinita.E in quel momento la qualità della nostra esistenza fu diversa. Il ridere, il giocare, la luce stessa, tutto improvvisamente si rese opaco e poi scomparve. La bilirubina le salì alla testa e cominciò a delirare. Fu straziante. Poi, il giorno dopo, è morta. Mi sono chiesto come sarebbe stata la nostra vita se quel giorno fosse durato anni».
In quel periodo lei ha attraversato una crisi profonda.
«A quel tempo ero senatore, ma molto insoddisfatto. Mentre Marisa non aveva ansie io ero pieno di paure, di manie, di angosce. Non mi sentivo all’ altezza del compito che avevo in Senato. Fui preso anche dall’ ossessione di aver ricevuto una certa cifra, non grande, ma che pensavo, erroneamente, non mi spettasse. Mi rivolsi a un mio amico avvocato, esperto di queste cose, il quale mi tranquillizzò. E tornai da lui una quantità infinita di volte. Perché c’ era sempre questo tormento ad angosciarmi. Fino a quando un giorno, passeggiando con lui sulle rive del Carso, gli dissi: Gianni posso chiederti una cosa? Qualunque cosa ma non più quella, rispose con la voce tremante d’ ira. E mi afferrò alla gola, alzando il pugno. Poi si girò di scatto dall’ altra parte, lasciando uscire dalla bocca una serqua di orribili bestemmie».
E lei come reagì?
«In quel momento cominciò la guarigione. E alcuni mesi dopo, stando ormai molto meglio, gli dissi: Gianni se il Giorno del Giudizio le cose andranno come spero, quelle bestemmie le vorrei messe sul mio conto».
Crede in Dio?
«Verrebbe da rispondere: qualche volta sì, qualche volta no. Se per Dio si intende l’ assolutamente altro, l’ imperscrutabile, e che il finito è la sola cosa di cui possiamo parlare, consapevoli che non basta, allora sì».
Ci sono momenti in cui percepiamo, più distintamente, la notte e il buio. È d’ accordo?
«È vero. Quello che chiamiamo buio, notte, insensatezza del dolore, sono cose terribili e non solo sono sofferenze che si vedono negli altri ma anche nei sentimenti che si provano. E i miei sentimenti furono profondi nel periodo in cui stavo male ed ero preso da una paura invereconda. Si fanno i conti con il dolore, con lo stordimento che provoca. Ma non puoi compiacerteneo civettare. C’ è una profanazione e un’ indecenza attorno ad esso che, soprattutto culturalmente, è diventata qualcosa di inadeguato al dolore stesso».
Il dolorismo che avanza?
«Non puoi fare una bella conferenza su coloro che muoiono affogati in mare, ma devi riuscire ad ottenere il possibile perché questo non accada. Il dolore è una testimonianza di ciò che siamo. Ma al tempo stesso c’ è il detto yiddish: l’ uomo viene dalla polvere e tornerà nella polvere, ma nell’ intervallo beva qualche buon bicchierino».