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 2013  novembre 03 Domenica calendario

BRIAN DE PALMA


MONTREAL Cine-cultore di sdoppiamenti e voyeurismi, Brian De Palma nella vita quotidiana capovolge il suo cinema: si sottrae alla vista sparendo nella folla. Durante i festival, atteso ai riti d’ obbligo, preferisce schivare il tapis rouge e mescolarsi al pubblico per assistere alle proiezioni in assoluto anonimato: unica ragione, per lui, d’ essere lì. Il regista del Fantasma del palcoscenico è un fantasma della platea? «Che c’ è di meglio nelle cine-adunate che immergersi nel buio e stare a guardare? Ogni festival è una vendemmia, prima che i film vengano imbottigliati e spediti in giro. Tante pellicole insieme sono un’ esplosione d’ emozioni, concentrate in pochi giorni. Un delitto non approfittarne». Non s’ è fatto sfuggire l’ occasione a Cannes, che l’ aveva invitato nel 2000 con Mission to Mars, né ogni volta che torna alla Mostra di Venezia, nel 2006 e 2007 con The Black Dahlia e Redacted (Leone d’ argento) o, l’ anno scorso, con Passion: «Venezia è una città marziana, tutta cinema ma, per me, anche musica: quella dell’ amico Pino Donaggio, autore delle colonne sonore di sette miei film». Ma è a Montreal, nelle sale infinite del Festival des Films du Monde, che il regista americano ha messo radici. Puntuale, fedelissimo negli anni ’ 80-’ 90, ora più sporadico ma sempre curioso, mai sazio. Finisce quasi sempre per girare, dentroo attorno ai festivala cui è invitato il nuovo film: due anni dopo Cannes, Femme fatale con il superbo incipit di seduzione saffica e scambio di collane nelle toilette o, nel 1998, nello stadio di Montreal, Omicidio in diretta con il sapiente piano sequenza d’ apertura di diciassette minuti (ma con tre "cuciture" elettroniche) che gareggia in vertigine con quello de L’ infernale Quinlan di Orson Welles, mito massimo del regista.
A settantatré anni compiuti l’ 11 settembre, De Palma appare smagrito e infragilito, l’ acidula barbetta sale-pepe, l’ occhio tuttora vigile e pungente. Più piacevole, con lui, intrattenersi su incognite e memorie del cinema che su quelle private, liquidate timidamente e in fretta. Nascita a Newark, New Jersey, come si sa origini italiane sia il padre chirurgo ortopedico che la madre casalinga, scuole protestanti a Filadelfia, facoltà d’ ingegneria a Manhattan, tre mogli fugaci: Nancy Allen, dal ’ 79 all’ ’ 83 (sua attrice in Carrie, Home Movies, Vestito per uccidere e Blow Out, tutti riproposti nell’ omaggio del Festival di Montpellier che s’ è chiuso ieri), la produttrice Gale Anne Hurd, dal ’ 91 al ’ 93, da cui ha avuto la figlia Lolita, oggi ventiduenne e, di nuovo, un’ attrice, Darnell Gregorio, dal ’ 95 al ’ 97, e seconda figlia, Piper, diciassette anni. Nel flashback autobiografico, brilla un entusiasmo inatteso, per le nuove tecnologie: «Una febbre che mi ha trasmesso da ragazzino mio fratello maggiore Bruce, scomparso nel ’ 97, orgoglio di famiglia per l’ acume scientifico. Al liceo lo emulavo: ho vinto un concorso con lo studio su L’ applicazione della cibernetica alle equazioni differenziali e ho fabbricato con lui computer primordiali. Per me gli smartphone sono la più importante delle invenzioni recenti, perché ci modificano profondamente la vita. Perciò ne ho fatto un ingranaggio di Passion, la sua metafora chiave».
È al cinema che si sposano le confidenze più intime del regista, quasi avesse incorporato il credo dell’ altro suo mito, Alfred Hitchcock, per cui "il cinema è come la vita senza le sue parti noiose" (anche se, per la critica più velenosa, "De Palma riesce a rimettere nei film tutte le parti noiose della vita"). Non a caso, quasi tutto il suo cinema è fatto di cinema. Remake, omaggi agli autori prediletti (in Body Double Omicidio a luci rosse l’ accumulo incrociato di rimandi a tre Hitchcock), fino alla cine-copia ironicamente corretta: ne Gli intoccabili, la carrozzella che ripete, ma con happy end, il precipizio della scalinata nella Corazzata Potemkin, sequenza di culto divenuta la Gioconda coi baffi del cinema. «Mi piace rimettere le mani sul cinema già fatto, sui personaggi ormai definiti, perché c’ è sempre qualcosa che si può aggiungere, togliere, aggiornare. Il mio grande sogno è una versione del Tesoro della Sierra Madre di John Huston, con i protagonisti premiati non da un giacimento d’ oro, ma di cocaina, oro del nostro tempo. Un’ idea affiorata con Scarface, appena tornato in sala, restaurato: al remake del film di Howard Hawks, con cui trent’ anni fa ho consacrato star Al Pacino, ero stato spinto dalla prospettiva di calarmi nella comunità cubana di Florida e nell’ universo della coca, che nelle montagne si raccoglie a costo zero ma, arrivata in città, vale milioni, dopo aver rimbambito strada facendo i trafficanti incapaci d’ astenersene».
Sia nei thriller che nei fantasy usciti dal suo filtro cinefilo, non si è limitato a manipolare immagini e storie preesistenti, ma ha prelevato «pezzi» originali dei registi amati: di Hitchcock, il musicista Bernard Hermann e, di Orson Welles, Orson Welles. Rara risata di De Palma: «Li considero i miei due Oscar, io che non ho mai ricevuto neanche una nomination. A trentadue anni ho diretto in Conosci il tuo coniglio quel gigante di Welles, attore formidabile, grande parlatore, geniale regista nel 1940, anno della mia nascita, del miglior film che sia mai stato girato, Quarto potere. Ero esaltato e in pena per lui: pieno di debiti, scartato da Hollywood, aveva accettato di girare una quindicina di giorni per raccogliere un po’ di soldi per il prossimo film. Altro mio colpo di fortuna, l’ anno dopo, la colonna sonora di Sisters composta da Hermann, il mago musicale di Psycho, La donna che visse due volte, Intrigo internazionale. Non ho mai visto la sua faccia: teneva sempre la testa bassa quando parlava. Un vulcano di collere improvvise, sua reazione alle decisioni sbagliate. Come Welles. La differenza? Hermann sosteneva le sue ire fino al raggiungimento dell’ obiettivo, mentre Welles, dopo il primo sfogo, lasciava perdere». Anche Hermann è stato, come Welles, un angelo caduto di Hollywood: «Fu irremovibile davanti al nuovo obbligo produttivo di scrivere almeno una canzone "di successo" a film - tipo Mrs. Robinson de Il laureato o The Ballad di Easy Rider - imposto a partire dagli anni Sessanta per il prevalere dell’ industria discografica su quella cinematografica. Hermann fu categorico: non scrivo canzonette ma musica da film! Lasciò gli Usa per Londra, dove musicò due Truffaut, Fahrenheit 451e La sposa in nero ». Anche lei si considera un esule di Hollywood? «No, piuttosto un rifugiato economico. Mi ci sono trasferito a inizio carriera per racimolare dollari, imparando subito la lezione di Allen: prendi i soldi e scappa. Hollywood è una malattia troppo contagiosa: ci resti un minuto di più e ti ritrovi a girare il prossimo Schwarzenegger senza neanche sapere com’ è successo».
Scampato al peggio, ora le riuscirà di ritrovare in un terzo film, Happy Valley, dopo Scarface e Carlito’ s Way, Al Pacino e, insieme, gli amati-odiati Studios: «M’ ispiro a una storia vera, che ha scosso gli Usa: quella di Joe Paterno, allenatore modello d’ una squadra universitaria di football americano travolto da uno scandalo di pedofilia che ne ha distrutto quarant’ anni di carriera portandolo alla morte due anni fa. È la discesa agli inferi d’ un uomo dal passato esemplare: storia affascinante, degna di Ibsen o di Arthur Miller. Potrebbe portare aria nuova nella Hollywood d’ oggi, occupata a scialacquare milioni in fumetti grande schermo, film-giocattolo e nuove serie di Batman. Quando ho finito Mission to Mars, mi sono detto: "Hai speso cento milioni di dollari: polverizzati nello Spazio. Ma che senso ha?". È la domanda che mi rincorre quando, per testarne l’ assurdo, ficco il naso nei kolossal del momento: ma c’ è davvero gente che paga il biglietto per vedere questa roba?».