Simonetta Fiori, la Repubblica 3/11/2013, 3 novembre 2013
LUDWIG WITTGENSTEIN – LA VITA OLTRE LA LOGICA
Gli ultimi scatti volle controllarli fin nel dettaglio. Disse al fotografo che preferiva essere ripreso di spalle, poi ci ripensò e decise di guardare l’obiettivo. Ma mancava il fondale. Si affrettò allora a casa dei von Wright a prendere un lenzuolo, Elizabeth gli offrì un telo fresco di stiratura ma andava benissimo quello spiegazzato tirato via dal letto. Lo appese davanti alla veranda, accostò due sedie per far posto a un soddisfatto Georg Henrick — suo successore in cattedra a Cambridge — e finalmente Ludwig Wittgenstein si accomodò davanti all’obiettivo. Lo sguardo diretto e teso, come una freccia da conficcare dentro la macchina. È la prima volta che succede, in tutto l’album. Nelle altre sequenze sembra guardare sempre oltre la camera — o anche di sbieco, talvolta spiritato — il sorriso beffardo di chi non si ferma alla realtà apparente delle cose. No, qui no. Pare proprio voler impallinare l’interlocutore, severo e nel contempo naïf. L’aria trasandata, calzettoni di lana spessa, il sandalo a penzoloni. E quel dardo fulminante. È la sua ultima immagine nella primavera del 1950, un anno prima di andarsene.
Per la prima volta esce in Italia l’album privato di una delle figure più affascinanti ed enigmatiche del Novecento. Un mistero destinato a riaccendersi con questa bellissima Biografia per immagini curata da Michael Nedo, che ha raccolto foto, lettere, citazioni, taccuini, appunti e memorie di amici e famigliari, incluso l’album costruito con perfezione geometrica dallo stesso Ludwig. Ne viene fuori il grande romanzo europeo nel passaggio tra due secoli, tra le sinfonie di Brahms e la rivoluzione atonale di Schoenberg, tra i decori barocchi della Vienna fin de siécle e la pulizia architettonica di Adolf Loos, tra il vecchio ordine asburgico e l’aristocrazia inglese dei Russell e dei Keynes. Il romanzo della distruzione e della rinascita. Con un protagonista che sembra capitato lì per caso.
Pur essendo di quel maremoto esemplare incarnazione, Ludwig dà la sensazione di essere estraneo alla sua stessa storia. Piccolo di statura, piuttosto bello, «il profilo affilato da uccello in volo». Appare spaesato tra gli ori e gli specchi di “palazzo Wittgenstein”, in Alleegasse, uno dei più sontuosi della Vienna asburgica: le sorelle riccamente addobbate, gli uomini in marsina, lui in giacca di flanella stazzonata, inconsapevole emblema del Novecento che avanza. Eccolo ancora con gli stivali di gomma, tra i suoi scolari contadini della bassa Austria, mentre il mondo intellettuale sta già scoprendo le novità del Tractatus. E poi di nuovo, sul finire degli anni Venti a Vienna, in scarponi impolverati nel cantiere di Kundmanngasse, dove aveva costruito la casa per la sorella Margarete. In quello stesso periodo Rudolf Carnap definisce «fondamentali » le sue riflessioni sulla logica, ma Ludwig preferisce concentrarsi sul termosifone angolare per la stanza della colazione. «Era forse l’esempio più perfetto del genio così come lo si immagina», avrebbe annotato di lì a poco Russell. «Appassionato e profondo, intenso e dispotico».
Dispotico anche nelle tante vite che scelse di abitare. Ingegnere aeronautico. Volontario nella Grande Guerra. Maestro di scuola elementare. Giardiniere. Architetto. Professore nell’esclusivo club di Cambridge. La vita è per Wittgenstein una continua mossa del cavallo. Fu l’inventore di una nuova filosofia che ruppe con ogni tradizione concettuale del passato — le sue elaborazioni sul linguaggio cambiarono la geografia mentale della modernità — ma non smise mai di contenere l’impulso teorico dentro la concretezza del lavoro manuale. Già considerato un fenomeno negli ambienti accademici, nel 1920 volle andarsene nel villaggio austriaco di Trattenbach per insegnare ai ragazzi delle campagne tutti i segreti del firmamento. Molti strumenti didattici se li fabbricò da solo oppure con l’aiuto dei bambini. Modelli di macchine a vapore. Martelli di ferro. Scheletri di mammiferi. «Un ridicolo spreco di energia e di intelligenza », commentò sprezzante Ramsey, il suo traduttore inglese, in una conversazione con Keynes. Figlio di un magnate della metallurgia, Ludwig aveva scelto di vivere in povertà. E quando la sorella maggiore Hermine lo rimproverò per le sue scelte al ribasso, lui le raccontò di quel tale che si affanna in tutti i modi per mantenersi in equilibrio durante l’infuriare della tempesta. «Ma allo sguardo di chi non sente la violenza del vento paiono movimenti privi di senso». Lui la tempesta la sentiva fuori e dentro. L’aveva sentita fin da quando era bambino.
Casa Wittgenstein era l’equivalente austriaco dei Krupp e dei Rothschild, tra enormi flussi di denaro, serate musicali e fervore d’arte. Brahms aveva fatto da maestro di piano alla zia Anna. E nel “salone rosso” era praticamente cresciuto lo Jugendstil, generosamente finanziato dal padre Karl. In una foto è poggiato di lato un dipinto di Klimt con una fanciulla bruna in un abito di voile color ghiaccio: è la sorella Margarete, ritratta nel 1905 dall’artista poco prima delle nozze. Tra le stanze di Alleegasse si contano circa ventisei precettori privati per otto figli. Un’atmosfera di «nervoso splendore» che però non riesce a camuffare fino in fondo le tensioni e i laceranti conflitti propri di un’epoca ma anche della facoltosissima famiglia. Tre dei fratelli decisero di farla finita. E anche Ludwig ha spesso la sensazione «di essere di troppo a questo mondo». I decori barocchi gli si rivelano presto gusci vuoti, privi di senso, cui contrapporre il rigore estremo di un’assurda capanna da lui costruita vicino al lago glaciale di Skjolden, Norvegia. Spoglia, essenziale, irraggiungibile su un dirupo. Siamo nel giugno del 1914, poche settimane prima del grande botto.
La sua vita privata fu un continuo oscillare tra il bisogno d’affetto e un’esigenza di quieta solitudine. Nell’album si susseguono molti ritratti maschili — prima l’amico David Pinset, poi l’allievo Francis Skinner, ed ancora il giovane operaio Keith Kirk — che riempirono le pagine bianche della sua vita amorosa, ma senza mai romperne il solipsismo sentimentale. Il fatto che queste persone lo ricambiassero era forse del tutto irrilevante. Anzi, la loro indifferenza finiva per rassicurarlo nella sua splendida blindatura. Narra il biografo Ray Monk che l’unico a minacciarne l’isolamento fu il devoto Skinner, qui ritratto in pose eleganti durante una passeggiata a Cambridge. Nel 1935 prese a scrivergli lettere turbate — «ti ho pensato un sacco da quando ci siamo visti», «ho sperato che ti facesse piacere sapere quale felicità mi procura vederti» — con l’effetto di provocare il bisogno di lontananza. Nel 1941 il ragazzo muore. Ai funerali Ludwig s’aggira senza requie, come un animale disperato e selvaggio. Nell’agenda solo un appunto: «Francis dies». Qualche tempo dopo sarebbe toccato a un giovanissimo medico incontrato in Inghilterra, Ben Richards, rinnovargli le pene d’amore. Alto, prestante, decisamente sensuale. Ha quasi quarant’anni meno di lui, e forse è anche il solo che riesce a renderlo «highly inflammable». Per la prima volta Ludwig crede di essersi imbattuto nell’«amore giusto ». Un’altra ragione per lasciare Cambridge.
«Vorrei una buona volta chiarire la mia vita a me stesso e agli altri», si legge in una pagina dei manoscritti. Non sappiamo se sia mai riuscito nel proposito. Michele Ranchetti, uno dei suoi massimi studiosi, ha trovato una chiave nel «dovere del genio». «È difficile trovare nella vita dei grandi un esercizio così assoluto di ricerca della perfezione ». Nell’aprile del 1951, pochi istanti prima di morire, Wittgenstein fa in tempo a sussurrare a un’incredula Mrs Bevan, moglie del medico che lo ospitava a Cambridge: «Dite loro che ho avuto una bellissima vita». Forse era anche quello che voleva dirci nell’ultimo scatto.