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 2013  novembre 03 Domenica calendario

OBIETTIVO SUI FUNERALI DI TOGLIATTI


È rimasto senza nome per tanti anni, protetto da una Hasselblad che gli copriva il volto. Si vedevano solo il profilo e le mani, sempre belle ed eleganti nei fotografi, strette al corpo della macchina e all’obiettivo, come una corolla. Intorno, una fioritura di personaggi, noti questa volta, Pier Paolo Pasolini, Lenin, Nilde Iotti, Leonid Brežnev, Pietro Ingrao, Giancarlo Pajetta e, spalla contro spalla, Renato Guttuso, quasi a sottoscrivere un’unione profonda d’intenti, la pittura e la fotografia che vivono, testimoniano e ricordano insieme. Per oltre quarant’anni questa presenza misteriosa è rimasta nascosta e mimetizzata nella folla di dolore che anima l’immensa tela dei funerali di Palmiro Togliatti, dipinta da Guttuso nel 1972. Oggi ha un volto, una voce, e una storia straordinaria che Mario Carnicelli, 76 anni, abruzzese di Atri, toscano d’adozione, ha voluto raccontare per la prima volta al nostro giornale. È lui il fotografo che dal 22 al 25 agosto 1964, nei tre giorni che fermarono il cuore dell’Italia comunista, documentò con incredibile intensità e modernità di sguardo la partecipazione alle esequie del leader del PCI. È lui che sorprese l’artista siciliano nella penombra e nella tensione del cordoglio e gli scattò uno dei suoi ritratti più significativi. E infine è lui che Renato Guttuso, a occhi bassi, forse chiusi, volle dipingere accanto a sé nel suo capolavoro. Lui, un fotografo di ventisette anni, figlio d’arte, che a sua volta volle immortalare i protagonisti famosi e anonimi di quei tre giorni di passione con la forza, la calma e la sontuosità del grande formato. Quegli splendidi 6x6, che Danilo Montanari, raffinatissimo editore d’arte e di fotografia, sta selezionando in questi giorni a Ravenna per un volume a cura di Marco Signorini e Bärbel Reinhard, in uscita il prossimo anno in occasione del cinquantenario della morte di Togliatti. Quaranta stampe, chiuse in una scatola di legno, come un regalo alla storia del Paese.
Perché, al di là delle scelte di partito, è dell’Italia che parlano le fotografie di Mario Carnicelli, un’Italia che un tempo credeva nella politica e nel diritto/dovere alla politica, un’Italia che difendeva la necessità esistenziale della politica, e si specchiava persino nella bellezza grave e composta della politica. E non è un caso se a questo sentimento così profondo, il fotografo, davvero come il Paese che ha ritratto, sia arrivato attraverso una storia di tre generazioni, dalle lotte socialiste alla guerra, dalla resistenza al ritorno della pace. Una storia che i dirigenti del PCI di Pistoia conoscevano bene, così come conoscevano l’importante lavoro che Carnicelli aveva dedicato ai volti e ai gesti della folla riunita ai comizi e ai festival dell’Unità. Quando si trattò di partecipare ai funerali del segretario generale, si ricordarono di tutto ciò e lo chiamarono.
«La notizia della morte di Togliatti, nel campo di Artek a Yalta, arrivò il 21 agosto del 1964, era un venerdì. Il giorno dopo la salma giunse a Ciampino e subito migliaia e migliaia di persone si misero in viaggio, in corriera e in treno da ogni regione del nord e del sud, per salutarla. C’ero anch’io, insieme agli onorevoli del partito comunista di Pistoia. Arrivati a Roma, andammo a Botteghe Oscure dove mi presentarono Sandro Curzi, che mi autorizzò subito a fotografare nella camera ardente. Solo più tardi arrivarono gli altri fotografi», ricorda Carnicelli. Uno dei primi ritratti è a Renato Guttuso di guardia al feretro, e il fotografo lascia che la fissità dei suoi occhi e la compostezza grave della sua figura emergano dal fondo nero dei velluti e dialoghino con il movimento dei corpi e il fuori fuoco delle innumerevoli presenze che cominciavano a sfilare davanti alla bara. «Fissando quei volti, a centinaia, in un flusso continuo dalle vie della città alla camera ardente, immaginai di rivedere anche il volto di mio nonno, Francesco Carnicelli. Se ho fotografato i funerali di Togliatti, lo devo a lui».
«Mio nonno era nato ad Atri, faceva l’ebanista, ma era anche un rivoluzionario a modo suo, tanto che nel 1905 dirigeva il giornale La Voce dei Socialisti, quattro fogli di lotte sindacali e di scioperi. Risultato, ogni volta che il re passava per l’Abruzzo, arrivavano i gendarmi e buttavano in galera mio nonno. Mio padre, gioco forza con un genitore così, aderì alle stesse idee. Aveva cambiato mestiere però, perché a Milano, dove era finito durante la prima guerra mondiale come uno degli ultimi ragazzi del ’99, era entrato nell’atelier di un fotografo e una volta tornato ad Atri aveva aperto il suo studio. Quindi si era iscritto al PCI, e aveva partecipato alla resistenza, staffetta tra Roma e i partigiani che combattevano sulle montagne abruzzesi».
Della militanza comunista di Augusto Carnicelli era stato informato anche il generale polacco Wl/adysl/aw Anders, che nel 1939 si era battuto a difesa della sua patria contro l’invasione sovietica, era stato catturato e torturato alla Lubjanka – nei destini incrociati della storia, Palmiro Togliatti era a Mosca nello stesso periodo – quindi era stato liberato dai tedeschi, e infine, fuggito a Londra, era stato nominato dagli Alleati capo del II Corpo d’Armata Polacco impegnato in Italia nel 1944, anche durante la battaglia di Montecassino. «Quando arrivò ad Atri, il generale, animato dal più tenace anticomunismo, proibì ai suoi soldati di farsi fotografare da mio padre e lo fece scrivere a chiare lettere sul muro del suo studio», continua Carnicelli. «Ma forse Anders non sapeva che mio padre aveva nascosto e salvato una coppia di fotografi ebrei, e che dopo la guerra, quando a sua volta fu costretto a scappare – perché nel frattempo aveva fatto arrestare il podestà – venne ospitato proprio da loro a Varese. Da lì si ritrovò a Pistoia dove aprì un nuovo studio fotografico, e dove lo raggiunsero prima i miei due fratelli maggiori, e nel 1949 io e mia madre. Devo forse ricordare che anche mia madre, Antonietta Restaneo, era comunista e che in assenza di mio padre, per sopravvivere, divenne un’ottima fotografa? E posso dire che durante i giorni del funerale di Togliatti a Roma, ne ho viste tante di donne coraggiose e forti come lei, contadine, operaie, studentesse, lavoratrici da ogni parte d’Italia, ma anche dall’estero. Tante venivano dal Belgio: erano le vedove di Marcinelle».
Allineate lungo le transenne che delimitavano via delle Botteghe Oscure, Mario Carnicelli sorprende intere famiglie, come la sua, nonni, nonne, padri, madri, figli, nipoti, bambini piccolissimi in braccio, e altri tenuti per mano. È un’Italia che non applaude ai funerali, ma indossa il vestito buono, anche il Principe di Galles, anche se di lana ed è estate, e se non ce l’ha si fa imprestare la camicia bianca, magari con il collo troppo largo. È un’Italia che indossa ancora la sottoveste e quando si alza in punta di piedi il bordo chiaro emerge con timidezza dal nero della gonna, e poi si fa il segno della croce anche se al collo porta il fazzoletto rosso. È un’Italia, ancora, che avvolge i pacchi nella carta di giornale e li lega con lo spago, e tiene la spesa nella reticella, e l’Unità e Rinascita ben piegate in tasca. Ma soprattutto è un’Italia «che ha uno sguardo che non esiste più. Bastava quello, più dei simboli, più della falce e martello, per sfilare davanti al feretro e rendere omaggio – prosegue Carnicelli – E la folla viveva il suo dolore, così autentico, rimanendo immobile, dignitosissima, in silenzio. La politica era anche questo, esserci, restare in piedi, resistere e testimoniare con la propria storia una storia più grande. E Togliatti, che aveva redatto negli ultimi giorni della sua vita il memoriale di Yalta, dando inizio alla via italiana al socialismo, aveva trasmesso questo senso di appartenenza almeno a tre generazioni».
Infine arrivò il 25 agosto, il giorno del funerale, «e allora la compostezza divenne oceanica, un milione di persone in piazza San Giovanni. A un certo punto si alzarono i pugni chiusi e fu un gesto liberatorio che ruppe la tensione di quella lunghissima attesa – riprende Carnicelli – E fu anche una delle mie ultime fotografie. Allora tornai a Botteghe Oscure, in attesa degli eventi». La sera stessa Luigi Longo venne nominato segretario del partito, «e io venni chiamato a fargli il ritratto ufficiale, diapositiva a colori, 6x6, perché di nuovo ero l’unico ad aver quel materiale. Scattai, consegnai il rullo, ma non rividi mai più le mie foto». La sera tardi, ormai notte, iniziò l’esodo del ritorno. A terra, e in una splendida immagine di Mario Carnicelli, erano rimasti i fiori, rose e garofani, l’omaggio di un paese che credeva ancora nella dignità delle idee e nella loro priorità per costruire il futuro.