Jaime D’Alessandro, la Repubblica 2/11/2013, 2 novembre 2013
HENRY WINKLER “FONZIE È CRESCIUTO ORA SCRIVE I BAMBINI”
«Fonzie? Era tutto quello che io non ero e avrei voluto essere». Henry Franklin Winkler, 68 anni appena compiuti, lo dice sorridendo mentre si guarda attorno in una libreria del centro di Milano. Camicia a quadri, cardigan, pantaloni con le pence beige, giocherella con gli occhiali da vista che porta al collo. «Sono figlio di una coppia di ebrei tedeschi arrivati a New York fuggendo dal nazismo», racconta. «Da ragazzo ero un insicuro, tutt’altro che alla moda e le donne non mi sfioravano nemmeno con lo sguardo. Non c’entravo nulla con quell’italo-americano di provincia. Uno che, a differenza di me, sapeva sempre cosa fare». Del personaggio interpretato per dieci anni in tv, nella serie Happy Days che in Italia spopolò a partire dal 1977, oggi sembra esser rimasto poco. Almeno a prima vista.
Winkler è un americano cordiale, un po’ sovrappeso, di piccola statura. Che abbia fatto l’attore è noto, che invece abbia deciso di darsi alla letteratura si deduce solo dal luogo del nostro appuntamento. Ma il bello è che in entrambi i casi si è trattato di carriere sulla carta impossibili.
Considerato dal padre un fallito, avrebbe dovuto entrare nella ditta di famiglia specializzata in importazione di legname. Ottenne la parte di Arthur Fonzarelli quasi per caso e altrettanto per caso è diventato uno scrittore di successo malgrado sia dislessico. La serie di libri per bambini, esce in Italia nei prossimi giorni il secondo volume intitolato Hank Zipzer e la pagella nel tritacarne (Uovonero), ha venduto quasi cinque milioni di copie. Il protagonista è un ragazzino dislessico e talentuoso, ovviamente. Un piccolo eroe che combatte, con parecchia ironia, il mondo ottuso degli adulti. «La mia vita ha preso un’altra direzione quando avevo 28 anni, semplicemente cambiando il tono della voce in quel provino per Happy Days». Winkler mette le mani in tasca, alza lo sguardo e Fonzie torna in vita d’improvviso. Inizia a parlare in inglese con uno strepitoso accento italiano, che noi tutti abbiamo perso essendo il doppiaggio negli anni Settanta inevitabile. Un accento molto simile, se non identico, a quello che i protagonisti del serial I Soprano sfoggeranno molto tempo dopo.
«E così Henry, che pensava di sbagliare sempre, divenne Fonzie che non sbagliava mai», prosegue lui. «Grazie a quel-l’intercalare, “heii”… (alza i pollici). Gli altri attori lo allungavano troppo, il mio invece era breve, secco. E poi “wow”, anche quello detto corto. Cominciai con una serie di battute, in tutto sei righe. E di puntata in puntata il mio personaggio crebbe di popolarità. Ma non mi sentivo una star, nemmeno quando iniziarono ad arrivare 50 mila lettere a settimana dai fan (conferma: cinquantamila). Continuavo ad essere basso e quella massa di lettere non mi faceva crescere di un centimetro né mi permetteva di superare i miei problemi con la dislessia. Ero sempre e solo Winkler, con tutti i miei limiti. Ogni lunedì ci riunivamo per leggere il copione e ogni lunedì per me era umiliante. Ron Howard che vestiva i panni di Richie Cunningham, poi è diventato un amico fraterno, mi aiutava e mi sosteneva anche il resto del cast. Eppure ho impiegato anni a sentirmi a mio agio con me stesso. Sono cambiato perché ero stufo delle mie insicurezze e stanco delle mie paure. Ho dovuto però staccare dalle ossa il vecchio Henry pezzo per pezzo». Il processo cominciò durante un viaggio. Winkler era in vacanza con il figlioccio di tre anni Jed e la moglie Stacey. Visitarono un villaggio degli indiani Hopi in Arizona e Jed al ritorno doveva scrivere un piccolo tema ma non riuscì a farlo. «Le insegnanti dicevano di lui tutto quello che avevano detto di me: bravissimo a parlare e incapace di scrivere, brillante ma svogliato, con difficoltà nella concentrazione. Capii che il mio figlioccio era dislessico, ma soprattutto venni a sapere a 31 anni suonati che anche io lo ero. La scuola per me era stata una tortura. L’unica cosa in cui eccellevo era la pausa pranzo. I miei genitori mi trattavano come un cretino, mi insultavano perché facevo fatica a leggere. Avevo bisogno di qualcuno che mi sostenesse, perché mi sentivo già da solo una nullità, invece mi hanno schiacciato. Quando stavo in classe sognavo di tornare a casa e di non trovarli più, speravo scappassero senza lasciare indirizzi dove rintracciarli. Ecco perché ho giurato solennemente che non sarei diventato un genitore simile. E ai miei tre figli, che hanno ereditato la dislessia, ho insegnato che per quanto lo studio sia difficile e penoso, non c’entra nulla con le proprie chance nella vita».
Obiettiamo che la generazione passata attraverso la guerra, la stessa contro la quale da noi si è scatenato il ‘68, non aveva certo gli strumenti di oggi per capire l’infanzia.
Ma Winkler non ci sente.
Anzi, si mette ad imitare la madre con l’accento tedesco facendone una parodia amara. «Li rispetto per quel che hanno passato», dice poi serio. «Per esser scappati dalla Germania ed aver cominciato una nuova vita in America. Ma non li perdono per come si sono comportati con me. Quando finii in tv e “the Fonz” divenne famoso, era il 1974 (negli Usa Happy Days venne trasmesso fra il ‘74 e l’84), si vantavano. Ma non c’erano stati quando avevo avuto bisogno di loro».
La seconda carriera, dopo esser diventato anche produttore e regista, Winkler l’ha iniziata nel 2003. Lui si schernisce, non si reputa nemmeno un autore di bestseller. «È capitato, non è una cosa che io abbia inseguito», spiega. «Un’amica, Lin Oliver (coautrice della serie di Hank Zipzer), dopo aver saputo quel che avevo passato a scuola mi ha chiesto: perché non ne scrivi? Ma a me avevano detto per anni che ero stupido, come avrei mai potuto scrivere un libro? Mesi dopo la mia amica è tornata alla carica e allora feci un tentativo. Ci vedevamo dalle 10 di mattina alle due di pomeriggio. Io parlavo, lei scriveva. In questo modo abbiamo dato alle stampe 17 libri venduti in milioni di copie ».
Romanzi concepiti da chi ha problemi a leggere e fatti per chi, fra i 7 e gli 11 anni, ha le stesse difficoltà. «Non compatiamo i nostri lettori, né li trattiamo come delle vittime. Raccontiamo la verità in un buon modo, con ironia e qualche scorciatoia che possa dare un po’ di soddisfazione. Inserendo ad esempio dei capitoli di un solo paragrafo per incoraggiare a proseguire. Hank è un ragazzo sveglio malgrado la dislessia e ha due buoni amici che a scuola lo proteggono. Quelli che io, per inciso, avrei sempre voluto avere. Forse non riuscirà mai a comprendere davvero cos’è la matematica e continuerà a penare sui testi, ma è pieno di talento e ha davanti a sé tante, tantissime opportunità che gli apriranno delle porte quando meno se l’aspetta».
Così come è capitato anni fa a un giovane attore pieno di insicurezze, presentatosi ad un provino convinto che nella vita non avrebbe combinato nulla di buono. E che ora, da dislessico, si ritrova perfino a fare lo scrittore. Con un nuovo progetto in testa, sulla carta difficile quando gli altri due: un romanzo scritto dal punto di vista di un cane. «Perché? Non lo so bene», ammette lui. «Mi sembra divertente l’idea. Tutto qui».