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 2013  novembre 02 Sabato calendario

LE IPOCRISIE DI UNA MANOVRA FANTASMA


Anche se San Giuda ci ha solo sfiorato, i tanto decantati germogli di ripresa hanno smesso di crescere. A ottobre gli indici di fiducia di consumatori e imprese sono tornati a diminuire. Calano i prezzi, ma anche i consumi, perché il mercato del lavoro va di male in peggio: il nuovo picco dei disoccupati è a 3 milioni e 200 mila. Il rischio che si innesti una spirale deflattiva, in cui i consumatori rimandano piani di acquisto perché pensano che i prezzi possano calare e le imprese tagliano i salari perché calano gli ordini è tutt’altro che remoto. Gli ordini per le imprese che producono solo per il mercato interno sono diminuiti di un ulteriore 10 per cento da inizio anno e difficilmente si riprenderanno in assenza di misure di sostegno della domanda. Purtroppo la legge di stabilità non ne prevede. Si discute ora su come riscriverla nel passaggio parlamentare e la ridda di voci sui contenuti della manovra non si è arrestata neanche dopo la presentazione di un testo in Parlamento. Il fatto è che questa “Finanziaria” è come se non esistesse. Nel 2014 fa il meno possibile: aumenta le spese di tre miliardi e mezzo e le tasse di un miliardo. Per capire l’entità di questi aggiustamenti, basti pensare che intervengono su un bilancio di 800 miliardi. Si rinuncia anche a pianificare i conti pubblici nel 2015 e 2016, come richiesto ormai dalle procedure di bilancio comunitarie. In entrambi gli anni la correzione del disavanzo è affidata interamente a “clausole di salvaguardia”, vale a dire imprecisati inasprimenti soprattutto dell’Irpef che scatteranno automaticamente, come l’Iva in questo autunno, in assenza di altri provvedimenti, altrettanto imprecisati. Per voci di spesa che valgono almeno 2 miliardi (Cassa integrazione in deroga, missioni di pace, Fondo di finanziamento ordinario all’università, fondo autotrasportatori) c’è un numero nel 2014 e poi zeri nel 2015 e 2016 senza che siano previste nella legge misure che potrebbero davvero azzerare queste spese. Insomma, è una legge di bilancio che vive alla giornata. Del resto cosa ci si può aspettare da un governo che, a sei mesi dal suo insediamento, non ha ancora deciso cosa fare della seconda rata dell’Imu? Dopo aver scatenato aumenti delle addizionali locali che gravano sul lavoro per finanziare la prima rata dell’Imu, rischia ora di trovarsi di fronte alla seguente grottesca alternativa: o tiene in piedi la seconda rata dell’Imu dopo aver cancellato la prima rata, oppure anticipa l’entrata in vigore della Tasi, una tassa ancora in gran parte indefinita e, per quanto è dato sapere, ancora più iniqua dell’Imu.
Le grandi coalizioni difficilmente producono grandi risultati. Ma la paralisi di questa coalizione è talmente generalizzata da risultare sorprendente anche agli osservatori più disincantati. Come si spiega?
Sono in molti a dare la colpa di questo immobilismo all’Europa. Sorprendentemente è innanzitutto l’opposizione a prendersela non già con il governo, di cui dovrebbe rappresentare il contraltare in democrazia, ma con le istituzioni comunitarie, accusate di imporci una austerità eccessiva. Eppure l’Europa ci chiede nel 2013 di tenere il disavanzo al di sotto del 3 per cento, non al 2,5% come contemplato dalla manovra presentata dal governo Letta. Questo mezzo punto percentuale di flessibilità aggiuntivo che ci viene concesso dall’Europa non è stato utilizzato per alleggerire in modo più consistente la pressione fiscale sul lavoro. Si tratta di circa 8 miliardi che potevano essere messi sul piatto per rafforzare interventi su costo del lavoro e salari netti oggi visibili solo con il microscopio elettronico (valgono mediamente meno di 10 euro al mese). È vero che l’Europa ci chiede di ridurre nel 2014 il debito pubblico di circa 3 punti percentuali, ma questa regola può essere rispettata con piani di dismissioni correttamente imputati alla riduzione del debito anziché a contenere il disavanzo, come purtroppo previsto con coraggio irresponsabile da questa manovra e dalla manovrina di inizio ottobre. Perché allora il governo ha voluto immolarci al 2,5 per cento? È forse perché l’Italia, nel recepire nel dicembre 2012 il Fiscal Compact, ha deciso di legarsi le mani emendando la Costituzione con l’adozione di una legge rafforzata attuazione, che prevede la messa in opera di un “meccanismo di correzione” in caso di deviazione significativa dal sentiero di avvicinamento all’obiettivo del bilancio strutturale in pareggio? In ogni caso perché l’opposizione non chiede ragione di questa scelta al governo Letta? E cosa c’entra l’Europa con il caos che questo esecutivo è riuscito a creare attorno alla tassazione degli immobili?
Secondo Wolfgang Munchau (Financial Times), la causa dell’immobilismo del governo Letta risiede nel fatto che mette insieme un partito che non vuol aumentare le tasse (il Pdl) e uno che non vuole tagliare le spese (il Pd). Ci sembra francamente una lettura un po’ superficiale. In entrambe le ali del governo Letta non manca la creatività nell’inventare nuove tasse. Qualche giorno fa un mancato premio Nobel, sacrificatosi per fare la sentinella anti-tasse, è arrivato fino a proporre un incremento del 60 per cento delle accise su birra e filtri per sigarette! E non è certo un caso che le clausole di salvaguardia prevedano immancabilmente aumenti di tasse che interverranno per sanare i conti pubblici in caso di sforamento dei tetti concordati. Quel che manca ancor più in questo governo che nei precedenti è la capacità di tagliare le spese in modo selettivo, mirato, premessa indispensabile per fare politica di bilancio. I veti incrociati nella coalizione impediscono anche tagli spostati in là nel tempo. Perché, ad esempio, l’esecutivo non ha attivato una clausola di salvaguardia che preveda, invece di nuove tasse, un taglio di alcune spese? Il fronte che si oppone, anche preventivamente, ad ogni taglio di spesa è molto più forte di quello che osteggia gli aumenti delle tasse anche perché accomuna maggioranza e opposizione. La vera ragione di questo è che quando si cominciasse a tagliare davvero le spese in modo selettivo, eliminando sprechi e privilegi, risulterebbe ancora più stridente il contrasto fra un paese in ginocchio e una classe politica che continua ad aumentare i propri emolumenti, sostenendo magari di fare esattamente il contrario. Come documentato da Roberto Perotti su lavoce.info, nel primo, di una serie di interventi che ricostruiranno minuziosamente i costi della politica in Italia, la spesa della Camera dei Deputati è due volte e mezzo quella per la House of Commons britannica (che ha più deputati), ed aumenterà nel 2013 del 10 per cento, mentre i documenti ufficiali annunciavano una riduzione del 3 per cento! Non è un caso che si mandino tecnici allo sbaraglio per fare le spending review. Il fatto è che i politici, su questo piano, sono semplicemente impresentabili.