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 2013  novembre 03 Domenica calendario

MUCCHE, PUGNALI E VELI IN AFFITTO “A SANA’A ANCHE SPOSARSI È UN LUSSO”


Antar Al-Aldharij ha messo al tappeto l’avversario senza usare un pugnale o un fucile di precisione. Solo con la forza delle braccia e delle mani nude. È un campione nazionale yemenita di judo e ogni pomeriggio va ad allenarsi in una palestra alla periferia di Sana’a. Lui e i compagni di squadra dividono i pochi metri quadrati a disposizione con un ring per la lotta tra culturisti. Antar non si cura di quel che accade dietro la tenda che separa i due spazi anche se gli spettatori dall’altra parte sono tanti e fanno il tifo per i due sfidanti. «Questo è l’unico posto che abbiamo per allenarci e presto verrà chiuso perché i generatori di energia elettrica costano. Siamo una squadra di campioni, apprezzata dal Giappone all’Italia, ma in Yemen non ci sono soldi per lo sport e la cultura». Eppure, lo Yemen di cultura ne avrebbe da vendere. Ma non sono tempi in cui si può spendere.
Dalla fine della rivoluzione nel febbraio 2011 - che si è conclusa con la destituzione del presidente Ali Abd Allah Saleh, al potere da 33 anni, e a un interregno che dovrebbe portane a elezioni presidenziali nel febbraio 2014 - l’economia è in caduta libera. Già prima delle proteste che hanno fatto circa 2 mila morti e 10 mila feriti tra civili e militari, la povertà era dilagante: il 40% degli yemeniti viveva con meno di due dollari al giorno, un terzo di loro doveva fare i conti con la fame cronica. Oggi va peggio: il valore del rial è sempre più fluttuante, in linea con un governo poco stabile, in continuo scontro con i separatisti, sottoposto alle pressioni internazionali degli Stati Uniti da una parte e dell’Arabia Saudita dall’altra e con una soluzione federale tra Yemen del Nord con capitale Sana’a e Yemen del Sud con Aden come città principale, che la Conferenza per il Dialogo Nazionale ritiene sempre più realistica.
Il peso della crisi si fa sentire ogni giorno ma soprattutto nelle occasioni di festa. Come all’Eid-al Ahda, la festività che ricorda il sacrificio di Abramo. In questi giorni chi non può si concede l’acquisto della carne, chi può si fa sgozzare un bue e ne destina un quarto a sé e alla sua famiglia; il resto lo dà ai poveri. Abu Ali è il direttore del mercato del bestiame di Sana’a, grande quanto un quartiere di medie dimensioni, dove si vendono capi provenienti dallo Yemen, ma anche dal Corno d’Africa, in particolare dall’Etiopia. L’uomo, che ostenta due baffi da gaucho messicano e una janbiya (il coltello tradizionale con cintura) descrive una stagione da dimenticare: «Lo scorso anno il mercato era affollato, adesso è vuoto. Tutte le capre e le mucche in vendita sono ancora qui. La gente è stanca e arrabbiata: come si fa a comprare una mucca da 200 mila rial con uno stipendio da 15 mila?».
La mucca più cara al mercato costa 300 mila rial (circa mille euro). Mohammed Aljal le vende all’ingrosso al direttore del mercato: «Le mie costano da 230 mila a 300 mila rial e ci perdo sempre. Chi compra, compra al ribasso con la scusa che, essendoci penuria di elettricità, non ha generatori abbastanza potenti per conservare la carne. La cosa mai successa è che ci sono rimasti sul groppone molti capi fino al giorno di Eid. La gente viene a comprarli adesso perché il prezzo si abbassa: ne ho venduta una a 115 mila rial. Non è stato proprio un affare».
Non va meglio nemmeno al mercato delle spezie di Sana’a, nel cuore della città vecchia, la kadima medina. Ahmad Addafaji vende fagioli, semi e aromi locali e importati da Turchia, Cina, India, Australia. «Prima della crisi le persone usavano comprare circa un chilo di spezie la settimana, adesso si va a etti oppure si compra cinese che costa poco e sembra fresco, anche se non lo è». Quando compare un buon compratore Ahmad si sbraccia. Come il signor Ali Kareem, funzionario della sicurezza locale, che è venuto qui con moglie e figlio: «Stiamo comprando chili di datteri perché tra qualche giorno nasce nostro nipote. Per il momento ce li possiamo permettere».
Con la crisi nemmeno le noccioline sfondano il tetto delle vendite durante l’Eid. Mohamed Ali è giovane e ha rilevato la bancarella da tre anni, in un punto strategico del suq: «Gli anni scorsi vendevo circa dieci grosse borse di merce al giorno. Ora giusto due, cinque al massimo. Se i salari non si fossero abbassati, venderemmo tutto».
In realtà non sono i salari ad essersi abbassati ma il valore della valuta. Faisal Darem è economista per il quotidiano «Yemen Observer»: «A marzo l’assemblea nazionale yemenita ha presentato un bilancio che prevede un deficit o previsto di 600 miliardi di rial, pari a 2,6 miliardi di dollari, circa il 50% in più di quello che i funzionari del ministero delle Finanze si aspettavano. Lo Yemen è un Paese che rischia di diventare sempre più povero».
Il peso della crisi si sente anche in occasioni felici, come i matrimoni. Taher e Kamal Koooz sono fratelli. Commercianti, vendono abiti da sposa molto trendy nella strada statale che porta alla grande Saleh Mosque: «Qui gli abiti si affittano, non si comprano. I più costosi non sono richiesti come un tempo anche se il matrimonio è una di quelle cose su cui una famiglia yemenita non bada mai a spese». Gli abiti più esagerati, come il modello «Cinderella» - cinque strati di tulle azzurro e oro - si aggirano intorno ai 20 mila rial, circa 69 euro.
Mohammad A. Qubaty, membro dell’Assemblea per il Dialogo Nazionale, ritiene che la crisi potrà essere superata appena ci saranno le giuste condizioni politiche interne: «Bisogna affrontare il problema delle amnistie per i vecchi leader politici e l’annosa questione separatista. Prima si risolve, prima il Paese si rimette al passo». Kaled Hedrom, il più grande grossista di tessuti della medina è di diverso avviso. Mentre gli passano sulla testa i caccia americani in pieno giorno, li punta col dito e dice: «Li sentite? Questi portano problemi che nessuno dice. Noi siamo sempre ottimisti, ma il suono di questi aerei ci fa lavorare meno».
E per chi in Yemen sente relativamente il peso della crisi e fa qualche guadagno in più, o spera di farlo, vale la storia di Abdel Kari, che ha ereditato dal padre una botteguccia di paramenti funerari e religiosi nel cuore della Città vecchia. Dopo avere ricordato che in un mese ha venduto solo 15 pezzi della sua mercanzia - tappeti da morto, sostanzialmente - ha il coraggio di dire: «Speriamo che le cose vadano meglio».