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 2013  novembre 03 Domenica calendario

QUANDO LE SPIE ERANO UNA COSA SERIA


Ricordo di aver letto in un libro antologico, pubblicato col titolo «Il mestiere della spia», alcune frasi sconcertanti che facevano risalire l’inizio di quell’antichissimo mestiere addirittura al Vecchio Testamento. Si affermava infatti che Mosè fu uno dei primi inventori dello spionaggio, avendo inviato alcuni uomini, i più fedeli, a «indagare segretamente nella terra di Canaan». Ma neppure gli antichi greci scherzavano. Una delle più famose storie di spionaggio organizzato non è quella dell’epico e devastante cavallo di Troia?
Oggigiorno, mentre lo spionaggio si fa sempre meno umano e sempre più tecnologico, di figure che evochino l’affascinante duplicità di Mata Hari o imitino i salti mortali di James Bond non se ne vedono più tante in giro. Uno degli ultimi personaggi di rilievo dello spionaggio del secolo scorso era stato, indubbiamente, l’abilissimo e colto poliglotta Richard Sorge.

Madre russa, padre tedesco, nato a Baku, centro petrolifero russo sul Mar Caspio fin dall’Ottocento, Sorge non fu una spia di poco conto. Al suo confronto l’odierna «talpa» Snowden, l’americano ex tecnico Cia rifugiato in Russia, appare un individuo alquanto sbiadito di rango inferiore: le foto che lo ritraggono come un turista qualsiasi, coppola bianca sulla testa, in giro per acque e monasteri della Moscova, non suggeriscono certo l’immagine né l’idea di un uomo eccezionale.
Sorge, impiccato nel 1944 a Tokyo, fu invece per tantissimi aspetti un personaggio di rilievo assolutamente fuori del comune. Aveva operato per i servizi sovietici sotto le spoglie di un giornalista tedesco, «alleato» dei nipponici, attivo e molto introdotto negli ambienti di peso in Giappone. Fu lui a informare per primo i russi, nel 1941, che Hitler si preparava a rompere il «patto di non aggressione» scagliando un temibile attacco a sorpresa contro l’Unione Sovietica. Stalin, sempre diffidente di tutto e di tutti, non volle prestare fiducia al più attendibile dei suoi informatori; lo giudicò, anzi, un torbido e folle mestatore degno semmai di sospetto più che d’ascolto. Ma pagò caro l’errore, lasciando indifesa e disarmata la frontiera occidentale della Russia che infatti, di lì a poco, sarebbe stata aggredita, quasi senza reagire alla violenza dell’assalto germanico. La città di Mosca minacciò di cadere sotto un blitz devastante: blitz cui Stalin non aveva voluto credere, malgrado l’avvertimento allarmato, quanto esatto, lanciatogli dal migliore dei suoi informatori segreti.
La storia dello spionaggio politico fra le due guerre era stata segnata dall’ambiguità di personaggi consimili, ideologicamente bivalenti, spesso indefinibili perfino sul piano antropologico agli altri come a sé medesimi. Li distingueva una sorta di singolare zingarismo di frontiera; potevano apparire al tempo stesso un po’ lituani o polacchi, uno po’ ucraini o tedeschi anseatici. Come se, vivendo a disagio, consumando scontenti la propria vita, avessero perduto chissà come il contatto con la matrice genetica da cui provenivano. Davano l’impressione di non percepire più quello che erano stati in origine, né quello che nel frattempo, vivendo, erano diventati all’insaputa di se stessi. A chi appartenere? A chi consegnarsi? Dove collocare con un minimo di precisione e di fermezza un’identità proteiforme, sfuggente, quasi insensibile alla forza di gravità che ci lega alla terra?
Proteiforme e sfuggente era certamente anche Markus Wolf, un pezzo di sofisticata letteratura spionistica fatto uomo: lo ho rincontrato qualche anno fa a Milano, quando ormai era andato in pensione e aveva scritto un libro sulle sue gesta nel controspionaggio. È a lui che si era ispirato John Le Carré per «La spia che venne dal freddo». Mi colpì, incontrandolo, quanto poco somigliasse all’attore che lo aveva interpretato sul grande schermo: il vero Wolf era molto più garbato, più gentleman, più articolato del personaggio cui Richard Burton aveva dato vita.
Wolf e io c’eravamo già conosciuti a Berlino subito dopo la caduta del Muro. Ormai la Germania comunista, la defunta Ddr, assomigliava a un cimitero letterario: cimitero del transeunte, dell’incompiuto, una grossa bolla d’aria che doveva sgonfiarsi e scomparire all’improvviso, una notte del 1989. Nell’epoca in cui la Germania dell’Est era un secondo stato tedesco, riconosciuto anche da potenze occidentali, Wolf, blindato dai servizi segreti della Ddr, era stato uno dei personaggi più importanti e nevralgici di quel Paese artificiale. John Le Carré lo descrive come un funzionario ambiguo, nascosto dietro il Muro «come dentro un’officina di mostri occulta e minacciosa».
Wolf era «l’uomo senza volto» della sezione esteri della Stasi, al quale Le Carré aveva dato una nebulosa fisionomia luciferina nei suoi romanzi. Era insieme il dottor Frankenstein, il Faust e il Mefistofele di migliaia di replicanti a lunga gittata, non dissimili da quel Gunther Guillaume che, nel 1974, rovinò la carriera del cancelliere socialdemocratico Brandt, quando i servizi di controspionaggio della Germania occidentale scoprirono che era una spia della Stasi.
A me è capitato di convivere per qualche tempo negli stessi ambienti, sotto lo stesso tetto politico, con un’altra importante creatura pazientemente costruita e infiltrata dalla Stasi ai vertici della Germania occidentale. Ricordo quanto avveniva a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta nelle sedi parlamentari di Strasburgo e di Bruxelles. Ero all’epoca vicepresidente del gruppo liberale del Parlamento Europeo e quindi stretto collaboratore del presidente tedesco Martin Bangemann, futuro ministro dell’Economia della Repubblica federale. Bangemann era circondato da diversi assistenti fra i quali, per devozione e fedeltà, spiccava una schiva signora poco più che quarantenne. Una donna di media statura, piuttosto insignificante, con un casco di capelli grigiastri, il che le conferiva un’aria di suora laica assai diversa dall’immagine alla Mata Hari che la fantasia popolare attribuisce alla donna spia. Vestiva modestamente, frenava le parole, cercava di non dare nell’occhio. Però beveva e quando beveva non riusciva a tenere a bada del tutto l’indole aggressiva. Nell’ambiente europarlamentare non si dava peso al suo cognome che molti ignoravano: era nota semplicemente come Sonja o Frau Sonja e nessuno sospettava, neppure lontanamente, che fosse una creatura di Wolf.
Strinsi con lei un difficile rapporto di lavoro: difficile perché l’enigmatica funzionaria si comportava in modo obliquo, diffidente, larvatamente ostile, più incline alla sorveglianza e al sospetto che alla collaborazione. Non riusciva a collocarmi in una sua precisa casella mentale e questo le recava un cupo disagio. Mai tanto cupo quanto il disagio e lo smarrimento che provai io, anni dopo, quando si scoprì che la donna era stata una spia indottrinata dalla Stasi per accudire e sorvegliare molto da vicino il futuro ministro dell’Economia di Bonn. Lo scandalo divampò nel 1986, quando la Cia pubblicò una lista di 400 nomi tutte spie della Stasi. Ai primissimi posti figurava Sonja Luneburg. Ma anche quello era un nome falso.