Marco Archetti, Corriere della Sera 2/11/2013, 2 novembre 2013
VANESSA, LE GARE E L’OSSESSIONE PER IL CIBO «SOGNO CHE LA FRUTTA SIA CIOCCOLATA»
Un destino di fuoco: dovrebbe intitolarsi così, la vita di Vanessa Ferrari. Primo comandamento? L’unico. Dice: «Non sbagliare mai». Perché sbagliare non si può, sbagliare non si deve. Sottrarsi all’umana condanna del pressappoco e lavorare durissimo, sempre. Per chi appartiene metà al suolo e metà all’aria, per chi ha in sorte un corpo sfiorato da una mozartiana predestinazione di precocità, l’unica verità è questa. Lei l’ha capito subito, meglio di chiunque altro. Fresca di rientro dalla Francia dove proprio in questi giorni ha preso parte al terzo torneo internazionale di Schiltigheim, oggi Vanessa Ferrari è una ragazza che ha voglia di parlare e di raccontare una storia, quella di una bambina che non aveva scelta, consapevole del fatto che non avrebbe mai potuto volersi diversa da quel che doveva essere. «Rimasi colpita da una ginnasta vista in televisione, vero. Ma non ricordo davvero come tutto sia cominciato. Diciamo che la ginnastica si è creata intorno a me. Sono una che è caduta nel pozzo», butta lì ridendosela su un caffè. Capace di imprese che sono pagine d’oro della storia dello sport e al contempo di stringate ruvidezze espressive, poco luminosa di sorrisi e spesso scura di sguardo, ogni suo gesto è sempre stato al centro di contraddittorie interpretazioni e, talvolta, di ingenerose antipatie. Lei ha sempre tirato dritto; poco il tempo, e ancora meno per spiegare qualcosa.
Ma cosa c’era da spiegare? E soprattutto, cosa c’era di così difficile da capire? I sacrifici, i successi. Le medaglie vinte o perse. I momenti difficili, il silenzio, la fatica quotidiana. Il cuore, muscolo violento — Vanessa era solo alle prese con se stessa. Non ne aveva forse il diritto? Si è detto: in crisi quest’estate, al punto di voler mollare tutto. «Non ho mai detto di voler smettere», precisa. «Nell’estate del 2012, ai Giochi del Mediterraneo, dissi che, se il fisico mi avesse assistito, sarei andata avanti. E ho ripetuto: se. Il che vuol dire che potrei anche smettere domani. La verità è che non è nei miei programmi». Più modestamente, nemmeno nei nostri. Al contrario, c’è da sperare vada avanti, perché questa ragazza che non sa bene chi sia Fabio Volo ma dedica la medaglia d’argento di Anversa 2013 ai morti di Lampedusa, che ha le papille gustative visionarie — «Ieri mangiavo una macedonia e immaginavo fosse affogata nella Nutella» — ma afferma con arcigno pragmatismo: «Non sogno nulla, credo solo nel lavoro», è stata la prima italiana a conquistare un oro ai mondiali di ginnastica artistica, è diventata Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica a 17 anni, ed è un fenomeno che può ispirare solo orgoglio. Adesso, 23enne, sta imparando ad accettarlo e ad accettarsi. Così, al di là delle conquiste future, ce n’è una che vale il presente: la serenità.
«Se non avessi il male al tendine che a volte mi preoccupa, starei meglio adesso di prima. Ora sono maturata, mi sento più equilibrata. E ho voglia di divertirmi. Da piccola ero tutta e solo ginnastica. Non mi sono mai goduta niente, nemmeno le vittorie. La mia vita era mangiare quasi nulla e andare in palestra. Tutti i giorni dalle 9 alle 16.30, poi a scuola fino alle 19.30. Poi a casa e a dormire. Mi sono presentata alle Olimpiadi angosciata dal peso più che dalla voglia di far bene le mie gare». Mentre lo dice, le sboccia negli occhi una smarrita dolcezza. «Questa vita mi ha dato molto, non sarei qui adesso e non avrei il fisico che ho, e del resto, parliamoci chiaro, se vuoi ottenere dei risultati non ci sono altre strade. Ma sono stata una ragazzina triste. Non facevo niente nel weekend e non avevo amici. Ora ho imparato a essere meno rigida con me stessa. E soprattutto, se ho un problema, ne parlo col mio allenatore. Oggi gli dico tutto, il nostro rapporto è di gran lunga migliore».
Un amore autentico, quello con la ginnastica, ferreo di intenzioni e munifico di risultati; un amore esigente, un poco crudele come ogni esclusività esige, nato prestissimo, maturato al chiuso di una palestra e custodito nel buio fervido dell’eterna concentrazione. «Dal 2005 al 2008 non ho mai fatto una vacanza. E mai vuol dire mai». Le gioie? «Ci sono state. Ma ho passato anche momenti pesantissimi. Ogni volta che sono andata fuori forma, riprendere è stata durissima. Fatica a livello mentale, più che fisico. Gli infortuni, poi, sono sempre un colpo terribile. Ultimamente, comunque, mi sento molto bene». Il momento peggiore? «Dopo Pechino 2008. Quasi un incubo. Un problema al tendine destro, incomprensioni con gli allenatori, clima teso. Mi sono operata e la ripresa è stata lunga. Nel 2010, eccomi in finale corpo libero agli Europei. Poi mi sono classificata quinta ai Mondiali. Agli Europei dell’anno dopo ho sbagliato la gara di qualifica ma ai Mondiali di Tokio ero prontissima — peccato solo che durante il riscaldamento mi sono storta una caviglia. Poi Bruxelles, quarto po sto, e Olimpiadi 2012, terza a pari merito, ma lo devo dire, a causa di un regolamento che si presta a interpretazioni quantomeno discutibili».
Progetti a lungo termine? «Non lo so. Vediamo». Resta seria per un momento. Ma poi sorride. «Diciamo che mi piacerebbe molto vedere Rio de Janeiro». Nei suoi occhi, un lampo rapinoso. «Per adesso mi sto allenando. Mi hanno data per finita già nel 2009, ma io sono ancora qua». Chi ha orecchie per intendere, ha già inteso.