Luigi Ferrarella, Corriere della Sera 2/11/2013, 2 novembre 2013
I CONFINI DI UN RUOLO E LE PAROLE INOPPORTUNE
«C’è modo e modo» di esprimere solidarietà ad «amici di vecchia data»: verrebbe da dirlo ad Annamaria Cancellieri usando le sue stesse parole nell’inappropriata telefonata alla compagna di Salvatore Ligresti. La responsabile del dicastero della Giustizia quel 17 luglio scorso stava infatti dicendo «c’è modo e modo» proprio di un arresto appena eseguito, per di più aggiungendo «non è giusto, non è giusto», «è la fine del mondo», «sono davvero dispiaciuta»: e lo stava dicendo alla compagna dell’arrestato, padre di altre due arrestate e di un indagato in quel momento ricercato e in seguito latitante, nonché ex datore di lavoro del figlio del ministro uscito dopo un solo anno dal gruppo con 3,6 milioni di liquidazione.
Più che farsi inchiodare dal suo amicale «qualsiasi cosa io possa fare tu conta su di me», il ministro rischia di restare crocefissa alla propria autodifesa: come se tutto il problema si riducesse al fatto che l’aver allertato due vicedirettori del Dipartimento penitenziario non abbia (per sua fortuna) sortito «alcuna interferenza» sul procedimento che poi indusse i pm torinesi di Caselli a prendere atto dei problemi di salute della detenuta Giulia Ligresti attestati da una perizia, a dare parere favorevole agli arresti domiciliari e ad accettare il patteggiamento a 2 anni e 8 mesi.
Se negli stessi giorni di luglio la vicenda di Alma Shalabayeva aveva palesato nei «non sapevo» del ministro dell’Interno Alfano l’inadeguatezza alle emergenze del Viminale, ora stupisce che anche l’attuale Guardasigilli mostri una così relativa consapevolezza del proprio ruolo, al punto da non cogliere l’evidente profilo di inopportunità nel momento in cui non frappone il diaframma della sopravvenuta funzione al comprensibile affetto per i vecchi amici: i quali, peraltro, appaiono i primi a poter far equivocare l’interessamento del ministro, vista la raccomandazione che Salvatore Ligresti afferma di aver speso presso l’ancora premier Berlusconi, nell’interesse e su richiesta dell’allora prefetto Cancellieri, in un frangente nel quale a dire di Ligresti ella avrebbe desiderato non spostarsi dalla sede che occupava.
E non conta tanto l’attendibilità di Ligresti, tutta da soppesare visto il suo fardello penale, né l’aspro commento proprio all’indomani della telefonata di «dispiacere» del ministro («Ma non ti vergogni di farti vedere adesso? Ma tu sei lì perché ti ci ha messo questa persona...») fatto a un interlocutore dalla compagna di Ligresti. Conta invece che la responsabile della Giustizia, nel momento in cui dichiara solennemente che sulla salute della detenuta Giulia Ligresti «non intervenire sarebbe stata una colpevole omissione» ed «era mio dovere invitare il Dap a porre in essere gli interventi tesi ad impedire eventuali gesti autolesivi», non si renda conto di stare così accreditando una sconfortante ammissione: e cioè di stare teorizzando che l’ordinario sistema penitenziario non appresti sufficienti tutele della salute e degli altri diritti dei detenuti diverse da quelle «segnalazioni» che il ministro rivendica di aver coltivato sempre «nello stesso modo» e «da chiunque fossero inoltrate».
Ma il punto sta proprio qui: nell’accesso all’attenzione del ministro o del suo staff come condizione per l’esercizio o il ristabilimento di diritti. L’hanno avuto i suoi amici nel caso dell’arrestata Ligresti. L’ha avuto chi in altri casi ha trovato il modo di fare arrivare una mail sul tavolo giusto. L’hanno avuto, con la forza dei loro scritti in quello stesso luglio, opinionisti come Corrado Augias e Adriano Sofri per il bene del detenuto-modello trasferito per cieca burocrazia dal carcere dove stava riabilitandosi. Ma «sensibilizzare» la Giustizia non può restare privilegio di chi abbia il numero di telefono del ministro o la ventura di conoscere un giornalista.