Salvatore Bragantini, Corriere della Sera 2/11/2013, 2 novembre 2013
PERCHÉ IL CAOS ALLA POPOLARE DI MILANO VA FERMATO
C’ è una banca nel cuore del Nord produttivo che divora il capo ogni tre anni: è la Banca Popolare di Milano (Bpm). Il suo problema sta negli assetti di governo, dato che nelle assemblee delle popolari si vota per testa; il funzionamento del sistema è delicato, soggetto a facili abusi, perché dà ad ogni socio — che abbia investito 100 euro o 50 milioni — un solo voto.
Esso richiederebbe equilibrio, buon senso e una visione di lungo termine degli interessi, nonché ferrea disciplina sui costi e sui sistemi di governo.
Dove il rispetto delle regole non abbonda, e la forma di organizzazione spontanea è la consorteria, il rischio è la formazione di sempre nocivi blocchi di potere dominanti; quando si formano, essi prendono la forma di due scogli in grado di affondare la banca: Scilla è il dominio dei dipendenti organizzati, propensi a vedere la banca più come una cooperativa di lavoro (se non di consumo) che di credito, ma molto pericolosa è anche Cariddi.
Se nella prima la testuggine dei dipendenti pensa più che altro alle promozioni del personale, nella seconda i maggiorenti locali vogliono gestire il credito in funzione degli interessi propri.
I sistemi non sono in sé né buoni né cattivi, dipende dalle persone che li gestiscono. Il voto capitario non comporta di per sé la formazione di blocchi difficilmente superabili, ma ciò avviene, di solito per imbalsamare assetti di governo superati; la bizzarra eccezione è Bpm, dove esso disarciona chi ha appena messo in sella.
Il campione indiscusso del rodeo è, storicamente, l’Associazione degli Amici della Bpm; nonostante questa sia stata sciolta e sanzionata dai regolatori, i dipendenti in Bpm fanno ancora il bello e soprattutto il cattivo tempo. Al lungo menù di presidenti cannibalizzati dalla tribù degli Amici della Bpm, s’è ora aggiunto un boccone prelibato, il consigliere delegato Piero Luigi Montani. Questi s’è dimesso per passare a Banca Carige, motivando la cosa con la «giusta causa»; egli la riscontra nei conflitti fra gli organi di governo di Bpm, il Consiglio di Sorveglianza (CdS) e quello di Gestione (CdG), nonché con i contrasti al suo lavoro da parte dei rappresentanti dei dipendenti in CdS.
È necessario un flashback : esasperata dalla gestione di Bpm da parte del non memorabile presidente Massimo Ponzellini, la Banca d’Italia impose un forte aumento di capitale e individuò nel sistema duale, con la divisione dei poteri che dovrebbe distinguerlo, fra chi sorveglia (CdS) e chi gestisce (CdG), l’antidoto al veleno che corrode Bpm.
Il duale funziona se attuato in coerenza con i suoi presupposti, il che da noi non è avvenuto; i difetti della sua versione nostrana (che esclude dal CdG il team di gestione, e non limita i compiti del CdS alla sorveglianza), uniti all’assuefazione della banca al veleno, perpetuano il male. Montani pare aver risanato la gestione, ma sono finora falliti i tentativi del nuovo azionista «forte» entrato con l’aumento di capitale (il fondo di private equity Investindustrial guidato da Andrea Bonomi) di mutare il governo della banca. Non è infatti passata la proposta di questo per trasformare Bpm in SpA sfuggendo all’incantesimo del voto capitario, e arranca quella di una forma ibrida fra popolare e SpA. Montani ne prende atto e lascia, ma il problema di governo della Bpm resta. Lo testimonia il comunicato emesso da Bpm su richiesta della Consob; più che spiegare l’accaduto, esso sparge nebbia al bromuro, quasi ripetendo in sedicesimo il comunicato del 25 luglio, quello per cui «la guerra continua al fianco dell’alleato tedesco».
Bpm è un microcosmo dei nostri mali: il prevalere delle consorterie, l’incapacità (delle popolari, nella fattispecie) di produrre anticorpi espellendo chi nuoce al sistema, il provincialismo passatista insensibile al mutare del tempo, che rende superate forme organizzative magari ragionevoli in un mondo radicalmente diverso. È assurdo che una banca come Bpm, radicata nella zona più ricca del Paese, sia in questo stato. La soluzione dei suoi mali potrebbe stare in una fusione con altra banca, a lei complementare, ma la barricata dei dipendenti boccerà qualsiasi operazione atta a demolirla.
Per questo è da presumere che la Banca d’Italia, molto preoccupata, non starà a guardare. Essa potrebbe anche assumere provvedimenti radicali, per fermare una deriva pericolosa: l’incancrenirsi della vicenda Bpm è un grave segnale d’allarme, evidenzia una mutazione genetica in grado di mettere a rischio, dandone una rappresentazione assai negativa, tutto il sistema cooperativo del credito che pure ha dato molto all’Italia nel Novecento. Incidere sulla carne di un malato può salvare il corpo. Bpm è emblematica del bisogno di radicale rinnovamento di un Paese che pare stanco e seduto, ma ha in sé tutto quanto serve a ritrovare l’antico slancio. Deve solo alzarsi e liberarsi delle incrostazioni di un passato che, da solo, non passerà mai.