Paolo Pombeni, Il Messaggero 1/11/2013, 1 novembre 2013
UNA RIVOLUZIONE RINVIATA
L’ANNIVERSARIO
Vent’anni dopo, ma sembra passato mezzo secolo o qualcosa di più. Il bilancio sul trattato di Maastricht, sottoscritto il 7 febbraio 1992, ma entrato in vigore il primo novembre dell’anno successivo sembra quasi appartenere ad un’altra era. Ed in effetti è così: la strategia che lo sorregge fu pensata a partire dagli anni Settanta del secolo scorso e la sua implementazione fu opera della grandezza di Jacques Delors che fu presidente della commissione nel decennio 1984 -1994. Essa si iscriveva ancora nella speranza di far fare all’Europa un passo avanti per una integrazione più completa, sogno della generazione politica dell’immediato dopoguerra. Delors, per la verità, era un politico con i piedi per terra e non aveva ambizioni “federaliste” fondate sull’utopia, ma, come tutti i grandi capi politici, era un uomo di visioni e non di piatta gestione del presente. Dunque bisognava che l’Unione Europea, allora ancora limitata all’Europa occidentale (e neppure a tutta), si dotasse di qualche strumento forte di omogeneizzazione politica.
LA FIRMA
È una leggenda che l’accordo di Maastricht sia stato sottoscritto dalla Germania sotto la pressione di un ricatto: se non rinunziate al marco e non accettate una moneta unica, non ci sarà alcun via libera alla unificazione. In realtà, come oggi sappiamo da molti documenti ora accessibili, Kohl si era mostrato disponibile all’unione monetaria già prima che la caduta del Muro (che sarebbe arrivata inaspettata) mutasse la scena internazionale. È ben vero che alcuni Paesi (soprattutto la Francia) usarono poi anche il tema dell’unificazione delle due Germanie come arma di pressione, ma la disponibilità c’era da prima.
MODELLO TEDESCO
La Germania più che arrendersi alle richieste di “europeizzazione del marco”, come talora si dice, ottenne al contrario, proprio grazie agli accordi di Maastricht, quella imposizione del suo modello economico che oggi tanti problemi ci pone: l’assoluta tutela della BCE da qualsiasi obbligo di tenere conto delle indicazioni politiche della dirigenza UE e il vincolo di una politica monetaria che doveva puntare solo al contenimento dell’inflazione.
Se a questa prescrizione (che è altra cosa dalla “indipendenza” della Bce) si sommano due punti dei cosiddetti parametri di Maastricht si capisce perché, inconsapevolmente, l’Europa si è messa da sola il cappio al collo. Il primo è quello notissimo del limite del 3% nello sforamento del bilancio di ogni stato. È quella che è stata autorevolmente definita “la regola stupida” per la sua astrattezza e rigidità.
Ma la seconda è anche più emblematica: a stare alla lettera del trattato nessun Paese doveva avere un rapporto tra debito pubblico e PIL superiore al 60%. Belgio e Italia furono esentati dal rispetto di questa norma, ma il fatto che attualmente quel rapporto nel nostro Paese veleggi ben oltre il 120% qualcosa vorrà pur dire.
LA MONETA
Il fatto è che l’unica cosa ad avere funzionato del trattato di Maastricht è stata la moneta comune: al varo nel 2002 la zona euro contava 17 paesi per 320 milioni di abitanti. Era un mercato immenso e avrebbe dovuto avere l’effetto di un potente moltiplicatore dello sviluppo economico, ma le rigidità del quadro hanno messo a rischio quel ruolo, anche se sarebbe sciocco negare i molti benefici che la moneta unica ha apportato. Da noi, ma non solo da noi, si tende a dimenticare come galopperebbe l’inflazione se avessimo ancora una moneta nazionale.
Dove invece Maastricht ha fatto flop è stato sul versante politico. I famosi “tre pilastri” che dovevano essere una comunità europea con una migliore forma di governance, una politica estera e di sicurezza comune (la famosa Pesc), una gestione coordinata degli affari interni e della giustizia, si sono dimostrati pilastri d’argilla. Gli Stati nazionali, ovvero per essere più precisi le loro classi dirigenti non hanno mostrato alcuna volontà di seguire quella strada e, tanto per stare nel sicuro, hanno progressivamente sminuito la forza personale e politica della commissione. Se si eccettua il mandato di Romano Prodi, che pur tra mille difficoltà, provò a rilanciare il modello di autorevolezza di Delors, sia il suo predecessore Santer, sia il suo successore Barroso sono stati poco più che volonterosi vassalli del comitato dei vertici degli stati membri.
Del resto nessuno ha voluto creare strumenti e meccanismi che permettessero al progetto di Maastricht di prendere il volo. Il fallimento del progetto di costituzione europea del 2004, sostituita con il modesto e impacciato trattato di Lisbona del 2009, è lì a dimostrare come la cosiddetta prospettiva “sovranista” sia rimasta egemone pur nella sua miopia. Essendosi aggiunta ad essa la paura del futuro indotta in tutti i paesi della UE dalla crisi economica attuale, si capisce bene che Maastricht è per ora il simbolo di una rivoluzione speriamo solo rinviata (perché vogliamo credere che quella bandiera possa, opportunamente ripulita, essere ancora risollevata dalla polvere in cui l’hanno fatta cadere).