Vittorio Sgarbi, Il Giornale 1/11/2013, 1 novembre 2013
IL PITTORE PIÙ MODERNO? VISSE CINQUECENTO ANNI FA
Il dipinto più moderno, inesauribilmente, il più moderno che sia mai stato concepito, è la Deposizione del Pontormo per la chiesa di Santa Felicita a Firenze, datato fra il 1526 e il 1528. Nessun dubbio che quella incredibile composizione con i colori acidi appartenga a una dimensione surreale e immateriale, onirica. Osserva con puntualità Salvatore Silvano Nigro: «A partire dallo spazio tutto è irreale in questa visione senza peso. Gli attori stessi avviluppati nei panneggi o vestiti di ombre colorate hanno aerea consistenza di libellule, e i colori sono di un delirio vegetale. Allegramente pagani, nonostante il tema: “I colori rosati, verdi chiari et alquanto gialli. Et i chiari turchini et altri così fatti si appartengono a ninfe, giovani, meretrici e simili” scriverà Lomazzo nel Trattato dell’arte e della pittura, scoltura et architettura del 1584. Quanto accade dentro la cornice dorata è un sogno colorato... è un pensiero che Pontormo coglie da dentro il quadro stesso, dove si è ritratto nei panni probabili di Giuseppe di Arimatea».
Il risultato di questi colori aerei è un galleggiamento delle figure che non consiglia d’inseguire alcun confronto con la realtà. Vasari osserva: «Pensando a nuove cose la condusse senz’ombra e con un colorito chiaro e tanto unito che appena si conosce il lume dal mezzo e il mezzo dagli scuri. In questa tavola è un Cristo morto deposto di Croce, il quale è portato ala sepoltura: evi la nostra donna che si vien meno, e le altre Marie, fatte in modo tanto diverse dalle prime, che si vede apertamente che quel cervello andava sempre investigando nuovi concetti e stravaganti modi di fare. Non si contentando e non si fermando in alcuno».
La singolarità dell’opera spiega perché per ben due volte si sia recuperato e pubblicato il diario di Pontormo. Prima l’edizione critica di Emilio Cecchi, poi quella riveduta e corretta di Salvatore Silvano Nigro, con il titolo Il libro mio . La stessa visionaria modernità del dipinto si rispecchia nelle annotazioni, su un quadernetto, che è diventato uno strumento per comprendere l’anima di Pontormo senza mai affrontare concetti o pensieri. Un diario di cattivi umori.
Ora Nigro lo ripubblica presso l’editore Bompiani come allegato di un vigorosissimo e notevolissimo saggio sull’artista, dal titolo L’orologio di Pontormo.
Invenzione di un pittore manierista (
che ricalca L’invenzione di una prefettura di Leonardo Sciascia). La seconda incursione da parte di un letterato nel mondo di un pittore sofisticato e difficile è introdotta da un’altra assai pregevole escursione di Giorgio Manganelli, e ci conforta non tanto per l’allargamento della prospettiva critica, quanto per l’intensità dell’interpretazione letteraria che appare di gran lunga più sensibile e attrezzata di quella dei critici d’arte.Perché il racconto-saggio di Nigro non è soltanto un’avvincente lettura dello stravagante diario di Pontormo, ma anche un’interpretazione complessa e appassionata della sua personalità dal punto di vista umano, letterario, psicoanalitico, religioso e anche artistico.
Intanto Nigro pone Pontormo, così immediato, diretto e brutale nella verità esistenziale dei suoi appunti, in un contesto letterario molto apprezzato, tra il Bronzino poeta e il Varchi poeta e teorico dell’arte. Negli anni della maturità Pontormo si era sempre più chiuso in se stesso rinunciando a relazioni sociali e rimanendo rintanato in un «casamento da uomo fantastico e solitario». Aggiunge Nigro: «Nel quale uccellescamente si chiudeva. In alto. In una torre impraticabile, che solo una scala di legno metteva in comunicazione con il mondo. E che il più delle volte al mondo negava accesso». Delle tante osservazioni che riguardano lo stomaco e il cibo, intrecciate ad annotazioni su disegni e pitture («a dì 15 di marzo cominciai quello braccio che tiene la coregia in testa, che
fu in venerdì, e la sera cenai uno pesce d’uovo, cacio, fichi e noce e once 11 di pane»), molto ha colpito quella in cui Pontormo rivela di essersi negato, selvaticamente, agli amici che vanno a trovarlo: «domenica, fu pic hiato d a Bronzino e poi el dì da Daniello: non so quello che si volessino ».
Nigro sa bene che leggende come queste, talvolta anche testificate da scritti e confessioni, fanno parte della dimensioneletteraria e dell’aura evocativa che riguarda alcuni artisti scontrosi e sommi, soprattutto in età contemporanea. Penso a Balthus, Lucian Freud, Antonio Lopez García. Maneggiare Il libro mio come lo scontroso testo di un personaggio alla Leautaud è una tentazione facile. Ma lo scrittore Nigro è troppo fine per ridurla in termini psiconalitici e di invenzione del personaggio. Così il diario di Pontormo con tutti i riferimenti alla sensibilità contemporanea è controcanto e integrazione, come per attutirne la perdita, degli affreschi per il coro di San Lorenzo a Firenze, ai quali Pontormo ossessivamente attendeva. E se il Varchi ne intendeva l’elevazione e il mistero teologico («Voi con chiaro pennello alto Puntormo/ fate pari all’antico il secol nostro»), il Vasari non capisce, e liquida l’impresa artistica estrema di Pontormo: «io crederei impazzarvi dentro... il tutto... è... senza misura, essendo nella più parte i torsi grandi e le gambe e le braccia piccole; per non dir nulla delle teste, nelle quali non si vede punto di quella bontà e grazia singolare che soleva dar loro con pienissima soddisfazione di chi mira l’altre sue pitture».
Vasari era spiazzato da Pontormo; ma Nigro riconduce gli appunti gastronomici e sanitari del pittore a una logica coerente: «La pittura di Pontormo è un “veder,pensando”:il prodotto di una costruzione mentale ». E il libro è un documento senza precedenti di una condizione psicologica di solitudine reale nella quale la pittura diventa ascesi, riflessione sul destino dell’uomo che soltanto in solitudine si può compiere. Sagacemente Nigro conclude: «il libro ridonda sull’affresco, quest’ultimo sul libro»; «è nell’affresco il senso del giornale ». Ed è questo il paradosso: di un grande pittore come Pontormo ci resta il libro, residuo del corpo e dei suoi bisogni, e sono perduti gli affreschi nei quali si rispecchiava la sua anima tormentata.