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 2013  novembre 01 Venerdì calendario

POCHE, EFFICACI, ETERNE LE ULTIME PAROLE FAMOSE CHE RESTANO NEL MARMO


«Sulle tombe vieta­to il latino », titola­vamo sulle pagi­ne del Giornale , qualche giorno fa, in una corri­spondenza da Albignasego, pa­esone del padovano. La buro­crazia sloggia dalle lapidi del lo­cale cimitero le epigrafi in lin­gua straniera, latino compreso. «Regolamento vecchio», argo­mentano le autorità del posto «la nostra è solo una confer­ma».
Sarà. Ma il diktat avrebbe ac­ceso le polveri dell’iracondo Ugo Foscolo, che da queste par­ti, sugli splendidi colli Euganei, soggiornò nel 1796, quando i suoi furori libertari destarono sospetti nella retrograda Vene­zia. In testa ai suoi Sepolcri (1806) vergò un detto ciceronia­no, estrapolato dalla veneran­de XII Tavole : Deorum manium iura sacra sunto , «Siano sanciti i diritti degli dei Mani». I Manes erano divinità latine dell’oltre­tomba, identificate con le ani­me dei trapassati, aleggianti presso le tombe. Tra le preroga­tive dei Mani - si presume - c’è quella di esprimersi nella loro lingua, il latino.
Forse fremono anche le cene­ri di quel tale Albinius, proprie­tario di terreni, che aggiunse al­la sua firma il suffisso di appar­tenenza -aticus (Albiniaticus, podere di Albinio) gettando co­sì le fondamenta del toponimo moderno, Albignasego. Se inve­ce che a Yonville fosse sepolta qui, alle porte di Padova, Em­ma Bovary, la Madame di Flau­bert, uccisa dai dispiaceri di cuore e dall’arsenico, non avrebbe sulla sua lastra l’epitaf­fio classico: Sta viator, amabi­lem conjugem calcas, «Fermo, passante, calpesti una moglie degna d’essere amata!», fatico­samente commissionato da Charles, l’incolore, sfortunato consorte.
Fosse per i burocrati di Albi­gnasego, pure la lapide di Anto­nio Gramsci sarebbe spoglia delle parole che ispirarono la penna di Pasolini: Cinera Anto­nii Gramscii (anche se lo scal­pellino avrebbe dovuto incide­re un
più corretto cineres ).
Sintetica e scultorea, la lin­gua di Roma è una macchina perfetta di emozioni per le scrit­te funerarie e commemorative.
Ne hanno beneficiato, in età moderna, eroi dell’arte e della cultura. Ille hic est Raphael , «Qui c’è quel famoso Raffael­lo », leggiamo sulla lapide del pittore nel Panthe­on di Roma, con ciò che segue «da cui, quando era in vi­ta, Madre Natu­ra temette d’essere vinta e, alla sua morte, di morire anch’essa con lui». Il mago della gravità e della luce, Isaac Newton, ripo­sa nella Westmister Abbey sot­to l’epitaffio Hic depositum est quod mortale fuit Isaaci Newto­ni , «Qui giace ciò che fu mortale di Isaac Newton»: le sue intui­zioni sono invece imperiture, come il cosmo che decifrava­no.
La vita si abbarbica al gelo del­la pietra tombale. Un’offerta vo­tiva, una lacrima, un fiore fre­sco, una luce (una favilla strap­pa­ta al sole per rischiarare la te­nebra sotterranea, secondo l’in­tendimento foscoliano) danno concretezza alla passione della memoria, al chiodo fisso del rimpianto. Per una di quelle me­ravigliose e arcane intuizioni poetiche che sprizzano dalla fantasia popolare, la lapide di­venta personaggio, e par­la. Interpella il visi­tatore. «Ami­co »leggia­mo nell’epitaffio per i 300 spar­tani caduti alle Termopili, attri­buito da Erodoto al poeta lirico Simonide «riferisci a Sparta che noi siamo stesi qui, obbedendo ai suoi decreti». I poeti classici s’impadronirono del commo­vente meccanismo, confezio­nando scritte fittizie (gli epi­grammi tombali) impastati di pianto. «Ehi, passante! - scrive Asclepiade, epigrammista del IV secolo a.C. - Hai fretta, si ve­de. Ma sta un po’ a sentire/ i di­spiaceri di Botri. Ci puoi giura­re, sono immensi./ È un vec­chio, Botri. Ottant’anni. Qui ha seppellito un figlio,/ un ragaz­zo, ma già una testa, da come ra­gionava, e mani d’oro./ Povero genitore. E povero anche tu, fi­gliolo di quel Botri,/ per tutto il buono che non hai avuto, quan­do te ne sei andato».
Perfino un cantore crudo e sarcastico come il latino Mar­ziale (I secolo d.C.) s’inteneri­sce quando detta la scritta sulla tomba di Eròtion, una servetta, sepolta nel suo fazzoletto di ter­ra, a Roma. «Qui è addormenta­ta Eròtion. Un’ombra prematu­ra./ Il sesto inverno l’ha spazza­ta via. Un crimine fatale./ Dopo di me, un altro avrà il mio orti­cello. Chiunque tu sia,/ anno dopo anno, regala un sacro fio­re a questa piccolina./ Vedrai che starà calda la tua casa, e in pace la famiglia:/ bagnerai di pianto solo questa lastra, qui, nell’orto».
I politici sanno essere più pragmatici. Per il suo monu­mento funebre, il dittatore Silla escogitò un’epigrafe che ha la grana imperio­sa e didascalica del pro­gramma, buono per tutti i tempi: «Non c’è amico che mi abbia fatto un favore, né nemico un torto, che io non ab­bia ripagato in pie­no ». La monumentale raccolta delle epigrafi funerarie latine è un li­bro aperto, non sulla mor­te, ma sulla vita a Roma.
Negozianti, attori, gladiato­ri, matrone, liberti ci hanno lasciato un diario collettivo vi­brante come un’ Antologia di Spoon River , capolavoro del­l’americano Edgar Lee Ma­sters. Con sfumature minac­ciose e patetiche, come nelle pa­role di un tale, Tullius Hesper, che sul suo loculo volle scritto: «Se qualcuno tocca le mie ossa qui dentro e le fa sparire, prego che viva per sempre con dolori fisici e che, una volta morto, venga rifiutato anche dall’infer­no ». Gente così non le avrebbe mandate a dire a chi, con i rego­lamenti, mette i bastoni tra le ruote ai Manes.