Ugo Arrigo, Il Fatto Quotidiano 1/11/2013, 1 novembre 2013
LASCIAMO ALITALIA AL SUO DESTINO
In occasione dell’approvazione dei suoi conti trimestrali Air France ha deciso di azzerare il valore al quale nel suo bilancio è iscritta la partecipazione in Alitalia e molto difficilmente aderirà all’aumento di capitale la cui scadenza è prevista a metà novembre. Con questa scelta divengono evidenti a chiunque due fatti di rilievo: in primo luogo che il valore delle azioni del vettore è azzerato per effetto delle perdite accumulate nei cinque anni di gestione e che il valore dell’azienda raggiunge a malapena quello dei debiti in essere; in secondo luogo che far intervenire con una quota di minoranza ma non trascurabile, Poste Italiane era una non-scelta. Essa è ora divenuta non più sostenibile e il governo dovrà inevitabilmente inventarsi qualcos’altro.
La decisione francese non sorprende in alcun modo. Come si poteva pensare che Air France fosse disponibile a continuare a metter soldi in Alitalia avendo la sicurezza che sarebbero andati perduti in un tempo più o meno breve e senza disporre delle leve della gestione dell’azienda? Gli scenari che ora si aprono sono diversi e tutti molto più complicati. L’unico elemento certo è che Air France è decisa a non restare nella situazione di limbo di un risanatore di perdite che non decide. Potrebbe invece essere ancora interessata ad assumere un pieno controllo dell’azienda. Per verificarlo è sufficiente iniziare a trattare ma chi può farlo? Gli azionisti uscenti, indeboliti dei risultati della loro gestione, oppure l’azionista pubblico entrante, indebolito dalla precarietà della soluzione adottata? O ancora il governo, ma a quale titolo?
DISPONIAMO di interlocutori nazionali molto deboli e le eventuali condizioni di Air France, ammettendo che sia ancora interessata, sarebbero durissime: ridimensionamento ulteriore del personale, tagli di offerta, messa a terra di aerei, ristrutturazione del debito. Nulla di paragonabile alle condizioni proposte nel 2008 e allora sdegnosamente rifiutate. Chi intende assumersi la responsabilità di accettare quelle nuove? Sarebbe la certificazione del fallimento della soluzione ‘patriottica’ ideata dalla Banca Intesa di Corrado Passera, fatta propria dal primo ministro allora rientrante Silvio Berlusconi e, ricordiamolo, accettata senza riserve dal Pd di Walter Veltroni e da tutti i sindacati, compresa la Cgil di Guglielmo Epifani.
La possibilità di partner o acquirenti esteri diversi da Air France semplicemente non esiste. Soggetti al di fuori dell’Unione europea non possono infatti assumere quote di maggioranza di vettori europei e dunque compagnie medio orientali potrebbero entrare solo con quote di minoranza. Questa ipotesi risulterebbe molto comoda per tutti gli attori italiani, privati e pubblici, tuttavia non solo Air France ma nessun altro soggetto economico, che si presume razionale, può accettare di recitare la parte del ripianatore di perdite che non decide.
CHI ACCETTEREBBE di divenire partner di minoranza degli azionisti italiani attuali avendo consapevolezza dei loro risultati? Inoltre nessun azionista di nessun vettore altro comunitario rilevante (Lufthansa e British) sarebbe disponibile ad approvare un ingresso in Alitalia, avendo la certezza di dover impegnare capitali rilevanti e quella di conseguire perdite.
Restano a questo punto solo soluzioni italiane che non sono e non possono essere vere soluzioni ma solo non soluzioni. In realtà una vera soluzione italiana vi sarebbe: trovare un imprenditore o un gruppo di imprenditori disponibili a investire tra i due e i quattro miliardi di euro per comperare un certo numero di aerei di lungo raggio e rilanciare la compagnia sull’unico segmento di offerta che è rimasto profittevole per i vettori di tipo tradizionale. Un aereo di questo tipo costa, a prezzi di listino, sui 200 milioni di euro ma se un vettore ne ordina un certo numero, ad esempio alcune decine, può ottenere sconti, solitamente tenuti molti riservati, ma che possono arrivare anche al 30-40%. Purtroppo gli aerei non sono disponibili negli hangar dei produttori ma occorre ordinarli e solo dopo l’ordine la loro produzione parte e viene realizzata in tempi non brevissimi. Inoltre non esistono imprenditori che abbiano queste disponibilità.
RESTANO PERTANTO solo le non-soluzioni. Quella minimale: vediamo chi ricapitalizza e speriamo che basti a passare la stagione invernale. Purtroppo non basta a rispettare i requisiti finanziari minimi di cui ogni vettore deve disporre per conservare la licenza piena di volo. Quella postale: Sarmi raddoppia e diventa primo azionista. Insostenibile. Quella ferroviaria: mettiamo gli aerei coi treni così togliamo i benefici della concorrenza modale ai consumatori e rendiamo disponibili anche per gli aerei le cospicue sovvenzioni concesse annualmente alle ferrovie. Impresentabile, soprattutto in sede di autorità di concorrenza e dei valutatori degli aiuti di Stato. Resta infine l’ipotesi di lasciare Alitalia al suo destino, tutelando i lavoratori ma non gli azionisti. Se le loro risorse economiche non basteranno allora gli aerei potrebbero anche restare a terra. È già successo in molti casi in Europa: con la svizzera Swissair e la belga Sabena nel 2001, con la slovacca Sky Europe nel 2009, con la spagnola Spanair e l’ungherese Malev nel 2012. Anzi, a pensarci bene, è già successo anche con Alitalia nel 2009: al momento del decollo del nuovo vettore il piano Fenice lasciò a terra una novantina di aerei, circa la metà della vecchia azienda, e una decina degli oltre 30 milioni di passeggeri che prima volavano coi due vettori aggregati. Questi passeggeri non restarono tuttavia a terra a lungo, ma in circa un anno e mezzo furono tutti ripresi a bordo da altri vettori, principalmente low cost, e a prezzi più bassi. La domanda dei passeggeri, la loro disponibilità a pagare, attirò l’offerta. Sono i vantaggi del mercato.