Ugo Bertone, Libero 1/11/2013, 1 novembre 2013
LA GERMANIA CI DERUBA
Ieri, vigilia del compleanno del trattato di Maastricht (in vigore dal 1° novembre 1993), Bruxelles ha fatto un omaggio al governo bavarese: il progetto di legge per
imporre un pedaggio sulle autostrade salvo poi rimborsare, per via fiscale, i residenti, non viola i principi dell’Unione Europea. E poco importa se un autostrasportatore italiano dovrà pagare di più del collega del Nord. Anche così, nelle piccole (neppur tanto piccole) cose, così come nelle grandi scelte di politica economica di Berlino, accusata ieri dal rapporto del Tesoro Usa di essere «la vera causa della crisi dell’eurozona». «Accusa incomprensibile », ha replicato stizzito il portavoce del governo tedesco, fingendo di non capire la situazione che, al di là dell’ottimismo ufficiale, resta ad alto rischio per tutti, ma per noi italiani ancor di più. Come dimostra, tra l’altro, il calo dell’inflazione: all’apparenza una buona notizia, in realtà un’ipoteca pesante sui consumi e l’occupazione. Ma proviamo a rinfrescare la memoria dei partner tedeschi. E dei nostri politici.
a) Tra i tanti protocolli sfornati dall’Unione Europea e agitati il più delle volte contro l’Italia figura il Mip, che sta per Macroeconomic Imbalance Procedure che, in sintesi, è un cruscotto che segnala gli scostamenti di un Paese dalla retta via. Quando si va fuori strada, scatta l’Alert Mechanism Report, una sorta di spia dell’olio. Ebbene il primo dei parametri da rispettare è quello di «non superare per tre anni di fila» un surplus commerciale superiore al6%del pil. Ebbene, nel 2012, l’attivo della bilancia tedesca è sceso ai minimi dal 2005 al 6,1%. Ovvero, per almeno otto di fila la Germania ha accumulato un attivo commerciale superiore a quello consigliato per evitare squilibri all’interno della Comunità. Invece di promuovere i consumi interni, e così favorire gli acquisti dei Paesi in deficit, la Repubblica Federale ha pigiato sul pedale dell’export a manetta.
b) Qualcuno ha protestato? Forse sì. Ma sottovoce. La cosa assurda è che a vigilare sul rispetto del protocollo comunitario sono incaricati 13 Paesi, tra cui c’è l’Italia ma non la Germania. Chissà perché nessuno, all’interno della Ue, ha alzato la voce per obbligare Angela Merkel a rispettare le regole che ha voluto. E così sono stati gli americani a perder la pazienza. Ma a loro cosa importa? E come è possibile accusare per anni la Cina di danneggiare il mondo con tassi di cambio troppo bassi per poi rivolgere la stessa accusa alla Germania per l’euro troppo forte? Sembra assurdo. Ma non è così. Per spiegarlo, può servire un’altra cifra: nel 2008, prima della crisi Lehman, l’area euro registrava un deficit commerciale con il resto del mondo di 100 miliardi. Oggi è in attivo di 300 miliardi.
c) Qual è il segreto di questo successo? Solo la qualità delle merci tedesche? No. In realtà, dopo le perdite accusate in Usa, le banche tedesche hanno ritirato con grande rapidità i fondi investiti, per sfruttare i maggiori rendimenti, in Sud Europa e in Irlanda. L’Italia, assieme ad altri, si è trovata costretta a comprimere i consumi per raggiungere, come è avvenuto, un surplus e ripagare i debiti. Una politica virtuosa («in economia è un peccato essere virtuosi » scriveva John Maynard Keynes) che avrebbe funzionato se la Germania avesse adottato una politica espansiva, garantendo lavoro e consumi al resto dell’Europa. Al contrario, da Roma a Madrid il surplus è stato ottenuto solo stringendo la cinghia, ovvero tagliando le importazioni. Ma quanto può durare una situazione così squilibrata? Fino a quando il mondo è disposto a comprare da un’economia che a sua volta non vuole comprare?
d)Sembrano temi distanti dalla vita quotidiana. Ma non lo sono. La combinazione tra l’euro forte, garantito dal surplus commerciale, e i consumi che stentano ha alimentato la peste dell’economia: la deflazione. L’indice dei prezzi è salito a ottobre solo dello 0,7%, come non capitava dal momento più buio della recessione del 2009. Eppure, a inizio ottobre, si sa, è aumentata l’Iva tra le tante proteste di chi scommetteva su un’impennata dell’inflazione a conferma che sono in molti a non aver ancora capito che il vero pericolo è l’opposto.
e) Prezzi sempre più bassi che convincono le famiglie a rinviare gli acquisti («perché cambiare macchina adesso se tra un anno me la venderanno a meno?») e a risparmiare, per paura, sempre di più. Salvo poi andare a caccia degli investimenti meno rischiosi e redditizi: la logica del materasso, insomma. Così si crea «la trappola della liquidità»: nessuna impresa prende a prestito denaro perché non trova occasioni redditizie per investire. I giapponesi conoscono bene questa situazione. Dal 1990 il Paese vive con un tasso di inflazione vicino a zero o anche sotto ma, nonostante una spesa pubblica enorme, l’economia non riparte. Per questo Tokyo ha cambiato rotta: stampare moneta e metterla in tasca alla gente perché ritorni a spendere, è la parola d’ordine. E il cambio? Vada giù, così si esporterà e si lavorerà di più.
f) L’Europa continua a seguire la ricetta opposta. Anzi, segnala Morgan Stanley, il rischio è che per rispettare i prossimi parametri dell’Unione Bancaria, le banche europee richiamino nel Vecchio Continente i soldi investiti fuori, con nuovi effetti recessivi per l’economia mondiale. Si sperava che la Germania avrebbe cambiato rotta dopo le elezioni. Ma, da quel che se ne sa, i partiti sono incerti anche sull’istituzione del salario minimo che, pare, dovrebbe essere fissato sulla tariffa di 7,5 euro all’ora. Perché nella Germania dell’austerità che medita di raggiungere il pareggio di bilancio in anticipo sulla tabella imposta dall’Europa, una parte non trascurabile dei lavoratori guadagna di meno.Forse assai dimeno. Difficile, con questi presupposti, che si possa prevedere un boom dei consumi privati. O tantomeno degli investimenti in infrastrutture o nei servizi: Berlino (così come Monaco) non ci sente dall’orecchio della liberalizzazione dei servizi.
g) Ecco spiegate le critiche «incomprensibili » avanzate dal Tesoro Usa. In passato i Key finding, cioè i Paesi problematici, erano quelli asiatici, tipo la Cina accusata di tenere artificialmente basso il cambio. Ora Pechino, spaventata dai problemi del debito Usa, si accinge a favorire le riforme interne, tra cui spicca quella di favorire i consumi rispetto alla crescita geometrica dell’export. Berlino, invece, si ostina a pensare che il debito sia un peccato (non a caso in tedesco la parola è la stessa) da espiare: sarebbe il caso di spedire una copia del Mip, rilegata (non badiamo a spese), alla Cancelliera di tutta Europa.