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 2013  novembre 01 Venerdì calendario

L’AMERICA ATTACCA LA MERKEL “AGGRAVA LA RECESSIONE EUROPEA” BERLINO: “ASSURDO, AVANTI COSÌ”


ROMA — La disoccupazione a livelli record, milioni di giovani respinti dal mercato del lavoro, un intero continente sull’orlo di una drammatica deflazione. Gli ultimi dati confermano la profondità della crisi europea. Ma c’è un responsabile? I grandi protagonisti dell’economia internazionale pensano di sì e, con una buona dose di autocritica, sono anche d’accordo nell’indicarlo. A sorpresa è quello che, solo due anni fa, era l’eroe e il modello da imitare: il governo di Berlino. Aveva cominciato il Fondo monetario internazionale, ma, questa settimana, si sono aggiunti la tecnocrazia di Bruxelles e, poi, il Tesoro Usa: una raffica di critiche e di accuse, via via sempre più aperte e insofferenti, alla strategia economica che la Germania ha imposto all’Europa. I temi sono quelli più volte anticipati da molti economisti ma che, ora, sembrano diventati patrimonio di una sorta di consenso internazionale ai massimi livelli. Due accuse che si intrecciano. La Germania ha continuato a spingere sul pedale delle proprie esportazioni, tagliando la strada ai Paesi in crisi (dalla Grecia all’Italia), impegnati a sviluppare le loro, per ritrovare la crescita. In questo modo, ne ha aggravato la recessione, che già era stata innescata dai tagli di spesa e dai rincari di tasse di un’austerità, che ora appare troppo precipitosa, troppo dura, in buona misura ingiustificata. Il nuovo governo tedesco che emergerà dai negoziati Cdu-Spd rischia di trovare un’atmosfera assai più ostile e partner assai meno malleabili di quelli lasciati da Angela Merkel prima delle elezioni di settembre. Ma la secca risposta di Berlino, ieri, alle accuse di Washington indica che la Germania «non intende farsi condizionare dalle pressioni internazionali» e da «critiche incomprensibili».
Vengano dai palazzi di Washington o da Bruxelles, critiche e accuse si concentrano sugli ingranaggi tecnici, più che politici, della strategia rivendicata da Berlino, ma questo le rende più devastanti. Ha cominciato il Fmi, con una sorta di inversione a U, che ha sconfessato le scelte compiute, a partire dalla crisi greca. Il Fmi sostiene che tutti i calcoli fatti, quando è stata lanciata l’austerità, erano sbagliati e gli effetti sull’economia sono stati molto più pesanti del previsto. A quanto pare, nessuno si era reso conto che, con i tassi d’interesse già vicini allo zero, la stretta fiscale non poteva essere ammorbidita e compensata da un allentamento monetario. Analogo, anche se visto da un’angolazione diversa, il ragionamento che ha preso piede nella tecnocrazia di Bruxelles. Qui, il punto è la differenza fra crisi ciclica, cioè legata alla congiuntura, quindi temporanea, e crisi strutturale, che resterebbe, cioè, anche in caso di ripresa. Tanto più alta la componente strutturale, tanto più duri e pesanti i tagli e le riforme delle manovre d’austerità. A Bruxelles, i tecnici si sono resi conto di avere esagerato la componente strutturale (per la Spagna, ha significato dare per scontata una disoccupazione al 24 per cento), dando spazio ad una moderazione dei programmi di austerità. Non solo. Un rapporto sul mercato del lavoro, uscito lunedì scorso, sollecita politiche “che stimolino la domanda di lavoro”. E’ una sorta di rivoluzione copernicana: per la prima volta, il termine “stimolo” entra nel vocabolario di Bruxelles.
Ma la burocrazia comunitaria ha, alla fine, messo nel mirino anche la politica interna tedesca. L’austerità in casa propria — sosteneva, a metà ottobre, lo studio firmato da una delle teste d’uovo di Bruxelles, Jan ‘t Veld — ha aggravato la recessione dei paesi in deficit, rendendo “più duro il riequilibrio nella periferia ed esacerbando ulteriormente il temporaneo peggioramento del rapporto debito- Pil”. Tanto più che, contemporaneamente, la Germania compensava l’austerità interna con le esportazioni. É l’accusa che, libero dagli impacci diplomatici di Bruxelles, fa, con brutale chiarezza, il Tesoro Usa. Per tutto il corso della crisi finanziaria dell’eurozona, diceva, mercoledì, il suo periodico rapporto sulle valute, la Germania ha mantenuto un ampio avanzo: nel 2012 superiore anche a quello della Cina. “Il tasso anemico di crescita della domanda interna tedesca e la dipendenza dall’export hanno ostacolato il riequilibrio, in un momento in cui molti altri paesi dell’eurozona hanno subito una severa pressione a tagliare la domanda interna e comprimere le importazioni, per promuovere il riequilibrio”. Non è un problema solo europeo, chiarisce, a scanso di equivoci, il Tesoro americano: “ il risultato netto è stato una spinta alla deflazione nell’eurozona, come per tutta l’economia mondiale”.
Berlino, però, non ci sta e, in una nota ufficiale, tace sui tagli di spesa operati sul bilancio nazionale e insiste, invece, sul fatto che il governo non ci può far nulla se le industrie tedesche sono così competitive. A Bruxelles, la Commissione si guarda bene da rendere esplicite critiche al gigante tedesco, visto tuttora come «una locomotiva per l’economia dell’eurozona”. La Commissione, tuttavia, è destinata a mettere presto i piedi in un piatto da cui si terrebbe volentieri lontana. A metà novembre deve dare le pagelle ai paesi europei e alla Germania, che ha sfondato il tetto di un surplus commerciale superiore al 6 per cento del Pil, dovrebbe mostrare un cartellino giallo. Proprio come dicono gli americani.