Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  novembre 03 Domenica calendario

INTERVISTA A PAOLA MAGNI

È volata via come uno dei suoi insetti. Un battito d’ali di oltre 20 ore, lungo 14.000 chilometri. Da settembre l’entomologa Paola Magni, 32 anni, torinese, ha lasciato la sua città d’origine per trasferirsi a Perth, presso il Centre for forensic science dell’University of Western Australia. Ci resterà per almeno quattro anni, con un regolare contratto. Quello che, concluso il dottorato di ricerca all’Università di Torino, nessun ateneo d’Italia ha saputo garantirle.
Devono avercela messa proprio tutta per lasciarsi sfuggire un cervello così. Non è, infatti, che la studiosa avanzasse pretese irragionevoli. Anzi, per cinque anni s’era accontentata di lavorare in un obitorio: «Via Bertani, cimitero Parco, sud di Torino». Lì, con la benedizione del professor Stefano Jourdan, direttore della Medicina legale dell’Asl TO1 poi morto prematuramente in un incidente, aveva aperto il primo e unico laboratorio di entomologia forense collegato al Servizio sanitario nazionale, che oggi, causa spending review, fa le ragnatele. Era famoso per le indagini sui gialli insoluti, al punto che la fondatrice finì per essere arruolata come consulente e soggettista della serie Ris - Delitti imperfetti di Canale 5, nella quale veniva identificata col personaggio di Flavia Ayroldi, la tenente dell’Arma interpretata nella fiction da Jun Ichikawa.
Solo gli australiani hanno saputo valorizzare appieno le sue capacità: a fine novembre la mandano in Tasmania a tenere corsi per la polizia dell’isola, a dicembre in Cile a istruire le forze dell’ordine del Sudamerica, poi negli Stati Uniti. Se ci fosse da risolvere un caso, potrebbe tornare anche in Italia, «basta che mi paghino il biglietto aereo», dissimula allegria. Nel frattempo alleva per ragioni di studio alcune migliaia di otto diverse specie d’insetti, dalla Calliphora dubia alla Crysomya varipes. Sulla scrivania tiene anche molti esemplari morti, prelevati su antiche mummie in Egitto e sui resti di nobili e canonici sepolti nel Duomo di Alba. A Perth ha persino creato Smartinsects, un’applicazione per Iphone e Android destinata a polizia e medici legali.
L’insolita specializzazione di Paola Magni contrasta col suo carattere solare: dalla colonizzazione di un cadavere, cioè dai tempi di comparsa delle diverse specie di insetti nel corso della putrefazione, riesce a risalire all’epoca e al luogo del decesso, talvolta anche alle cause. Dettagli fondamentali, inutile dirlo, per investigatori e inquirenti. Non a caso carabinieri, poliziotti e pubblici ministeri pendevano dalle sue labbra.
La scienziata in esilio s’è formata sul campo o, meglio, sul camposanto. Si chiama Forensic anthropology center, ma è conosciuto come body farm, la fabbrica dei corpi, dal titolo di un romanzo di Patricia Cornwell. Fu aperto nel 1981 dal dottor William Bass e si trova a Knoxville, negli Usa. È lì, nel dipartimento di antropologia legale dell’Università del Tennessee, che Paola Magni ha frequentato la Fbi Human remains recovery school. «Immagini oltre 5.000 metri quadrati di terreno nei quali vengono lasciate decomporre, da pochi mesi sino a una ventina d’anni, centinaia di salme donate a scopo di ricerca o che nessuno reclamava, allineate una dopo l’altra nelle più disparate posizioni: sotto terra, nell’acqua, nell’immondizia, appese a testa in giù, chiuse in auto...».
Figlia unica di un vicedirettore d’albergo e di un’educatrice per disabili oggi entrambi pensionati, la signora delle mosche ha palesato fin da bambina una spiccata propensione per gli animali. A 5 anni sezionava le castagne marce alla ricerca dei vermi, «quelli giallini con la testolina marron», e li rinchiudeva nelle pentoline rosa della sua cucina giocattolo. Alle scuole medie ebbe «un momento mistico», lo definisce così, per il frate naturalista Gregor Mendel e le sue leggi sui caratteri ereditari. Cominciò a incrociare criceti di diversi colori, fino a ottenerne cinque generazioni: «I piccoli con una livrea che non era interessante per i miei studi li cedevo a un negozio d’animali, in cambio di mangime per l’allevamento domestico». Al liceo salesiano Madre Mazzarello avvenne la definitiva consacrazione alla natura, complice il professor Leonardo Azzi, docente di biologia e chimica: «Ci faceva trascorrere tante ore al microscopio in laboratorio, anziché sui libri». Approdata all’Università di Torino, pensava di dedicarsi alle creature acquatiche, visto che a 18 anni era diventata la più giovane istruttrice italiana di sub, e così s’iscrisse al corso di biologia marina, poi scelse l’erpetologia, lo studio dei serpenti. «Ma mi convinceva poco».
E allora che fece?
«Passai al corso di entomologia. Eravamo soltanto in una ventina. Alla prima lezione, il professor Pietro Passarin d’Entrèves ci disse: “Gli insetti sono gli animali più presenti sulla faccia del pianeta. Ma gli uomini studiano soprattutto quelli nocivi, come le cavallette e le cimici, o utili, come le api, o belli, come le farfalle. Solo la medicina legale comincia adesso a servirsene per ricostruire la scena del crimine”. Fine della premessa. Quella frase prese a trapanarmi il cervello. Cominciai frenetiche ricerche. In Italia a quel tempo non si faceva nulla di serio sull’entomologia forense. Oggi la situazione è migliorata di poco: solo qualche seminario di studi che dura alcuni giorni, quando invece bisognerebbe istituire come minimo una laurea di secondo livello. Avvicinai Carlo Torre, perito nel caso di Cogne e nell’omicidio di Marta Russo, che fu prodigo di consigli. Avevo trovato la mia strada».
In concreto?
«Tanto studio su testi americani, corsi all’estero e due anni di pratica all’obitorio per la tesi di laurea, col cellulare acceso 24 ore su 24 in attesa del ritrovamento di un corpo altamente decomposto da analizzare. La trafila è complicata: sopralluogo, campionamento, autopsia, crescita degli insetti in laboratorio, tempi di morte, tossicologia, Dna».
Mi ricorda Clarice Sterling dell’Fbi nel sequel di Hannibal, alle prese con le imprese del serial killer Buffalo Bill, che mette nella bocca di un decapitato il bozzolo di un lepidottero.
«Quella è l’Acherontia atropos, la sfinge testa di morto, una falena cicciotta chiamata così perché sul torace ha una macchia biancastra a forma di teschio. Ma non c’entra nulla con i morti. Generalmente le uniche farfalle che vanno sui cadaveri sono le tarme interessate a divorare gli abiti della vittima».
Allegria.
«La piramide alimentare degli insetti segue un orologio biologico molto preciso. La colonizzazione della salma procede a ondate. Per primi arrivano i calliforidi, vulgo mosche. Seguono coleotteri e parassiti. Alla fine si presentano i ragni, che aspettano la metamorfosi di coleotteri e tarme per cibarsene. L’ecosistema si complica di ora in ora. Ci sono insetti interessati ai resti freschi e insetti che prediligono quelli decomposti o già secchi. Nel frattempo sopraggiungono quelli che non sono attratti dal corpo, bensì dagli insetti che lo avvolgono. Si crea una catena alimentare di necrofagi, parassiti di necrofagi, opportunisti, occasionali. Un banchetto effimero».
Perché, quanto dura?
«Da una settimana a due anni. Dipende dall’ambiente, dal clima, dagli abiti».
Meglio finire sbranati dai lupi.
(Ride). «Rosario Fico, direttore dell’unità specialistica di medicina forense veterinaria dell’Istituto zooprofilattico di Lazio e Toscana, una volta mi ha chiesto di indagare proprio sulla carne trovata nello stomaco dei lupi».
Ma come risale all’ora della morte?
«L’entomologo forense identifica le specie di insetti presenti sopra, attorno e dentro il cadavere, determina lo stato evolutivo che hanno raggiunto e compara questi dati con le informazioni ambientali. Ogni specie ha tempi di crescita propri, in base alle temperature. E ogni ambiente è diverso: nel deserto i calliforidi non arrivano, mentre si rinvengono per primi i coleotteri. In acqua cambia tutto».
Non era meglio se continuava a dedicarsi alla sua vocazione originaria, la biologia marina?
«Non l’ho mai abbandonata. Mi sono specializzata all’Università dei Santi Cirillo e Metodio di Skopje, in Macedonia, nell’analisi delle diatomee collegate a casi medico-legali, come quello di Federica Mangiapelo, la sedicenne trovata morta in riva al lago di Bracciano nel novembre 2012».
Che cosa sono le diatomee?
«Microalghe unicellulari che vivono in ambienti acquatici o umidi. Si trovano tanto nel plancton quanto sulle rocce. L’uomo in procinto di morire affogato le respira insieme con l’acqua. Dalle diatomee recuperate in una salma si riesce a stabilire se quell’individuo è annegato oppure no e anche dove e quando».
Come si lavora in un obitorio?
(Ride). «I clienti di solito non si lamentano. È un luogo dove vige un grande rispetto ma anche una certa goliardia. Bisogna prendere le distanze dall’umanità - il bambino morto, la donna incinta, il ragazzo rimasto ucciso in uno scontro - e concentrarsi sul lavoro. Non è più Mario Rossi, diventa semplicemente un corpo, un pezzo di legno».
Un uomo non è un pezzo di legno.
«No, non lo è. Ma i colleghi più anziani sanno rendere impersonale la materia. L’autopsia diventa scienza pura, qualcosa di affascinante. Vedi solo la macchina umana che non funziona più. Però ho sempre notato negli anatomopatologi un respiro profondo all’inizio dell’autopsia e uno alla fine, l’equivalente di due preghiere».
Il suo primo incontro ravvicinato con una salma?
«Durante una vacanza d’estate in Calabria. Frequentavo le elementari. La nonna mi portò nella chiesa del suo paese, San Giovanni in Fiore, a vedere un frate cappuccino defunto. Ero terrorizzata, le stritolavo la mano. Giunta davanti alla bara, mi dissi: embè, tutto qua?».
Intendevo il primo incontro da entomologa forense.
«Nel 2002, un pomeriggio di giugno. Arrivò finalmente la telefonata del medico legale. Mi convocava sulla sponda del Po, dov’era stato ripescato un cadavere che galleggiava, un ubriaco scivolato nel fiume. Mi presentai con la mia ventiquattrore metallica, zeppa di barattoli variopinti. Gli investigatori mi guardavano storto, quasi a dire: e questa chi è?».
Saranno stati gelosi.
«Be’, no, erano contenti che qualcuno sbrigasse il lavoro più schifoso al posto loro, visto che il volto del defunto era coperto di mosche di varie specie».
Come ha vinto la ripugnanza?
«Mi si sono spenti i sensori. Non si vince il disgusto: ci si abitua. Idem per l’odore. Il vero medico legale deve anche annusare, non spalmarsi il Vicks sotto le narici come si vede nei film polizieschi».
Il caso più difficile che le è capitato?
«Quello della povera Serena Mollicone, la diciottenne di Arce assassinata nel 2001. Anche perché è stato riaperto dopo 10 anni e ho dovuto lavorare sui resti dei vestiti che indossava. Ho trovato uova, larve e residui disidratati di insetti mai analizzati prima. Questo ha permesso di limitare la tempistica del decesso».
Si occupa solo di insetti sulle salme?
«E sui viventi. Al convegno dell’European association for forensic entomology ho presentato uno studio sulle miasi, infestazioni da larve di mosca che possono presentarsi su piaghe e tessuti necrotici, ma anche in occhi, naso, orecchie e apparato digerente. Le miasi però hanno a volte effetti benefici: la maggot therapy, terapia basata sulle larve di mosca, è utilizzata all’estero negli ospedali per pulire i bordi delle ferite, specialmente le ulcere da diabete e da ustioni».
E come si prendono queste miasi?
«Molte persone lasciano esposte all’aria le ferite superficiali per farle asciugare più in fretta. Capita che le mosche vi depositino le uova, da cui in breve tempo nascono le larve».
La zanzara tigre diffusasi in Italia rappresenta un pericolo?
«Non in se stessa, ma in quanto portatrice di agenti patogeni che altri insetti non inoculano. Parlo del virus della febbre del Nilo, della dengue, della febbre gialla, dell’encefalite di St. Louis, della dirofilariasi e della chikungunya, che provoca una poliartralgia grave e che si è già manifestata in forma epidemica nel 2007 in Emilia Romagna, con 217 casi nelle province di Ravenna e Cesena».
Una decina d’anni fa intervistai una sua collega di Pavia, Annalisa Ramella, che ama talmente gli insetti da mangiarseli. A cena con gli amici la sera prima aveva cucinato formine di riso basmati con grilli al forno e cavallette in pastella. Gradirebbe?
«Sono curiosa per natura. Se me li proponessero, li assaggerei. Gli insetti sono altamente proteici».
Stefano Lorenzetto


LORENZETTO Stefano. 57 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimo libro: Hic sunt leones (Marsilio).


LORENZETTO Stefano. 57 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Tredici libri: La versione di Tosi e Hic sunt leones i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.