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 2013  novembre 01 Venerdì calendario

CHI VUOLE AFFONDARE CROCETTA


PALERMO. Riuscirà Rosario Crocetta a salvare la Sicilia da mafia, corruzione, ingiustizia e povertà? Bella domanda. Che si può anche formulare così: riuscirà il primo governatore di sinistra della regione, Crocetta appunto, un imprevisto mix di comunismo, omosessualità e devozione alla vergine Maria condensati in un condannato a morte da Cosa Nostra a realizzare «la rivoluzione» che promette, o sarà accoltellato alla schiena dai suoi principali alleati, ovvero pii altrettanto incredibili dirigenti del Partito Democratico siciliano?
Alla fine di ottobre, quando sono sceso a Palermo – città dal gossip politico finissimo e irredimibile – la risposta a questa domanda era ancora «cinquanta a cinquanta». Il clima era delizioso, decine di caldarrostai abusivi riempivano le strade («guadagnano 300 euro al giorno, lo sapevi? E sono sentinelle di Cosa Nostra sul territorio: ah: non lo sapevi?»), chi poteva (non pochi) andava a farsi una nuotata a Mondello, turbe di licenziandi delle più disparate categorie manifestavano verbalmente bellicosi davanti ai palazzi del potere, dove la polizia si mette in divisa antisommossa giusto il tempo della ripresa televisiva.
Insomma, la solita magnifica Palermo; capitale della «Grecia dell’Italia», eterna Mafialand, sempre mancata California del Mediterraneo.
In uno dei suoi magnifici palazzi del potere, il palazzo d’Orleans con le sue vertiginose magnolie, sede della presidenza della Regione, il vostro cronista se ne stava aspettando un appuntamento da ore, riflettendo sulla quantità sterminata di guardie del corpo e personale, osservava rapito la straordinaria bellezza dell’antistante palazzo dei Normanni, sede dell’assemblea regionale, nella cui mole gli ingegneri arabi di Federico II erano riusciti a incanalare il vento.
Nel 1946, prima ancora della Costituzione, la Sicilia ottenne una vastissima autonomia regionale («altrimenti l’avemmo persa, se ne sarebbe andata per i fatti suoi») e il palazzo d’Orléans divenne la sede della presidenza della sua assemblea. La mafia ha sempre avuto un grosso artiglio in quelle stanze. Nel 1980 Cosa Nostra non esitò ad uccidere il presidente democristiano Piersani Mattarella, che le si era opposto, cominciando una mattanza di prefetti, generali, giudici, poliziotti, giornalisti e uomini politici.
Una specie di oblio accompagna gli ultimi signori del palazzo. Il penultimo inquilino, tale Salvatore Cuffaro, detto «Totò vasa vasa», attualmente è ospite del penitenziario di Rebibbia; l’ultimo, l’enigmatico Raffaele Lombardo – a capo del Mpa, suo proprio partito autonomista, alleato del Pd – si è dimesso un attimo prima di essere rinviato a giudizio. Anche lui, secondo l’accusa, riceveva voti da Cosa Nostra a cui ricambiava favori.
Contro Cosa Nostra l’attuale presidente ha invece una storia rocambolesca e romantica. Rosario Crocetta ha 62 anni e una faccia scolpita che assomiglia a quella del mitico sindacalista Giuseppe Di Vittorio. Figlio di operai, scoprì di essere omosessuale a 11 anni, quando era chierichetto. È cresciuto a Gela, la città più tremenda della Sicilia, dove Mattei scoprì il petrolio, poco prima di essere ammazzato. L’Eni ci mise un grosso stabilimento, la cittadina diventò grande, 1’80 per cento delle case è abusivo, il panorama e perfetto per chi voglia girare un film sul degrado urbano). Sindaco di Gela per i Comunisti Italiani, Crocetta si scontro con la mafia come un Gary Cooper in mezzogiorno di fuoco. Attaccò il boss locale, Daniele Emanuello (un tipo che aveva sotto di sé duemila picciotti e fatto duecento morti) e quando questi venne ucciso dalla polizia, Crocetta disse: «Oggi è il giorno della liberazione di Gela», guadagnandosi la condanna a morte della famiglia. Da Cela, Crocetta (dopo aver schivato il servizietto di un killer assoldato addirittura in Lituania) è andato a Strasburgo, uno dei due parlamentari europei del Pd siciliano, insieme a Rita Borsellino, e nove mesi fa è stato protagonista di una mission impossible: vincere le elezioni regionali e diventare il primo governatore della sinistra in un’isola dominata dalla destra, diventata berlusconiana.
Alla vigilia nessuno avrebbe scommesso su di lui, eppure... Eppure, il centro destra si divise in due (Musumeci per il Pdl e Micciché per il Grande Sud), di fatto suicidandosi, l’astensionismo andò alle stelle e i grillini fecero il primo dei loro exploit portando a casa il 18,2 per cento e 15 deputati regionali su 90. Siccome in Sicilia la legge dice che vince la coalizione che piglia anche solo un voto in più degli altri, Rosario Crocetta diventò uno degli uomini politici più potenti d’Italia a capo di una coalizione formata da Pd (13,4 per cento), Udc (10,8) e con una sua lista personale delta «II Megafono» (6,2). Il problema era però che non aveva la maggioranza in assemblea – appena 36 deputati su 90. Però Crocetta sta lo stesso e non passa certo inosservato. Ha, per legge, abolito le province (tema che era caro ai grillini, che hanno finora ricambiato con il voto); ha eletto assessori a sorpresa, ha licenziato un faraonico ufficio stampa; ha imposto un taglio a famose elargizioni milionarie ad enti inutili; ha messo il naso nelle spese di rappresentanza ed è andato all’assalto di una delle più strabilianti istituzioni della Regione Sicilia, la «formazione professionale». Questo è un collaudato sistema finanziato dalla Regione – la seconda voce di spesa della regione dopo la sanità – che impiega qualcosa come 8500 «professori» (si fa per dire) in decine di enti deputati a formare lavoratori agguerriti in tutti i campi, dall’informatica manageriale alla toelettatura dei cani alla «ricostruzione estetica ungueale in soggetti onicofagici», destinatari decine di migliaia di disoccupati che frequentano (qualche volta) i corsi (numerose volte solo sulla carta) e vengono gratificati di un modesto, ma pur sempre apprezzato «gettone di presenza». Posti di lavoro effettivamente creati? Zero. Ma in compenso ci sono gli stipendi per 8300 formatori, i gettoni di presenza, la speranza: gli enti sono la più vistosa macchina di potere elettorale dell’isola.
Nel bel mezzo della crociata contro lo scandalo dei corsi professionali, è avvenuta la rottura tra il Pd e il presidente Crocetta. Già, perché toccando i corsi, si toccava il Pd. Se da lontano la questione appare difficile da comprendere, da vicino la cosa appare invece chiarissima. Il Pd ufficialmente rimprovera a Crocetta di fare di testa sua e di lasciarlo fuori dal potere regionale. Per questo ha ordinato ai suoi quattro assessori «di area» di dare le dimissioni (un po’ come Berlusconi con i suoi al governo Letta). I quattro però hanno detto di no e quindi non c’è stato rimpasto. A questo punto, però, è arrivata una mozione di sfiducia dei grillini contro Crocetta. I grillini sono 14, ma hanno (faticosamente) trovato altri quattro firmatari, nel Pdl. Il Pd è stato a guardare.
Adesso però vorrete sapere che cos’è il Pd siciliano, e qui la questione si fa deprimente. Si tratta, infatti, di una serie di poteri locali, piuttosto forti, riuniti sotto un segretario regionale, Giuseppe Lupo, membro dell’Opus Dei con annesso voto di castità, con un proprio bacino di voti nella Cisl. Sotto il suo coordinamento, troviamo l’ex senatore Vladimiro (Mirello) Crisafulli, il benefattore di Enna (vi ha portato l’università e un grattacielo detto il mirellone), popolarissimo, ma dichiarato «impresentabile» dai saggi del partito di Roma per aver avuto frequentazioni (intercettate) con il capomafia ennese. Ecco poi il «signore delle tessere» di Messina, Fracantonio Genovese, esponente di una storica famiglia di potenti democristiani, a capo del maggior gruppo industriale dello Stretto. Il senatore Antonino Papania di Alcamo, proveniente dalla Margherita, vincitore delle primarie, ma anche lui dichiarato «impresentabile» dai saggi di Roma. A reggere il filo della continuità con il vecchio Pci, partito di cui fu segretario Pio La Torre ucciso nel 1982, è rimasto Antonello Cracolici, oggi cuperliano, «siciliano e riformista», che ha attaccato «la deriva personalistica di Crocetta», ammonendolo con il classico: «pretendo rispetto».
E quale fu la mancanza di rispetto? Semplicemente, il più grosso scandalo coinvolgente il Pd siciliano. Retata della magistratura messinese contro il “sistema di potere del gruppo Genovese”, descritto come una famiglia -piovra dai mille tentacoli, in cui i corsi professionali (più di trenta enti!) servono da ricettacolo di denaro pubblico, così come da macchina elettorale e voto di scambio. Tra gli accusati, il cognato di Genovese, deputato del Pd Franco Rinaldi. Retata anche nella lontana Umbria, dove finisce agli arresti l’ex presidente della Regione Rita Lorenzetti e con lei un serissimo geologo palermitano di nome Walter Bellomo. Bene, nelle trattative per la formazione della giunta Crocetta, la delegazione del Pd aveva proposto come assessori proprio Rinaldi e Bellomo, quest’ultimo sponsorizzato da Anna Finocchiaro.
Non si sa se per fiuto, per fortuna o perché glielo aveva detto un uccellino, ma Crocetta non aveva accettato i due nomi. E adesso il Pd gliela faceva pagare, ed esigeva rispetto. E se non glielo dava, forse era meglio farlo cadere.
In un pomeriggio di fine ottobre, nella sala della presidenza di palazzo d’Orleans Rosario Crocetta spiegava ad Antonello Cracolici, venuto a trattare una specie di temporanea tregua, che non ci sarebbe stato nessun rimpasto, che lui non aveva intenzione di regalare al centrodestra la Sicilia, che delle varie correnti del Pd non gli importava più di tanto, ma che non aveva intenzione di farsi mettere sotto. Accendeva e spegneva in continuazione Marlboro. Trafficava con tre telefonini contemporaneamente. Aveva appena scoperto che i siciliani sono i più grandi consumatori di farmaci contro l’osteoporosi di tutta Europa (un colossale furto, ben ramificato); che una fornitura di pannoloni all’Asp per 27 milioni, dopo l’intervento di un nuovo manager era scesa a sette. Che la mafia si ricomprava a Carlentini centinaia di ettari assegnati ai contadini dalla riforma agraria; che la Regione continua a servirsi di 35 imprese edili schedate come mafiose, che la stampa non ci crede quando lui parla di pericolo mafia; e che il Pd («che pure è il mio partito, sono un iscritto») sbaglia a non occuparsi più di mafia e a non vedere la «voragine di corruzione» in cui abita; che i grillini seguono la linea Casaleggio, di attaccare chi gli e più vicino. Cracolici ascoltava con aria triste e assicurava che il Pd voleva solo il bene della Sicilia.
Ce la farà Crocetta? Se passerà alla storia come il primo presidente che ha vinto su mafia e corruzione in Sicilia, non lo sarà, però, per la spinta degli eredi del partito che fu di Pio La Torre. E tutti e due sanno che è un peccato.
Ma «che ci possiamo fare?», le cose sono andate cosi.